Il Cineclub Detour di Roma, a due mesi di distanza dagli apprezzamenti veneziani, ha organizzato opportunamente tre proiezioni de Il gemello di Vincenzo Marra nella stessa settimana. Come si ricorderà il film fu proposto in rete sul sito di Repubblica, nei giorni delle proiezioni all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, alle Giornate degli Autori. Una strategia promozionale voluta dal produttore Gianluca Arcopinto il quale, presente in sala sabato 3 novembre insieme al regista Vincenzo Marra, continua a credere nella necessità di elaborare metodi di distribuzione alternativi per scuotere un mercato che pone ai margini del circuito delle sale cinematografiche un certo tipo di film. E la scelta di partire da un luogo come il Detour, sempre attento al cinema di qualità che per vari motivi trova poco spazio nei canali principali, rientra in questa prospettiva.

Il gemello è un film che va segnalato per il suo valore civile. E sarebbe utile sostenerlo in un percorso distributivo che possa toccare i luoghi coinvolti (Napoli e la Campania) come del resto i produttori, tra i quali figura lo stesso Marra, hanno in progetto di fare. Il film ha il merito portarci, come forse mai è capitato nelle numerose opere che hanno trattato il tema carcerario, fin dentro i luoghi fisici del penitenziario di Secondigliano. Lungo i suoi corridoi, nelle sue celle, tra le sbarre. Mostrando un mondo fin qui negato e rimosso che Vincenzo Marra fa emergere attraverso infaticabili pedinamenti che la sua mdp, da lui stesso maneggiata, compie per oltre un anno. La sensibilità di Marra unita ad un metodo di lavoro (che riguarda il versante documentaristico della sua filmografia) perfezionatosi negli anni, a partire da Estranei alla massa– documentario sugli ultrà del Napoli del 2002  – gli permette di ottenere dai  “suoi” personaggi, lasciati sempre al loro libero agire in uno spazio e in un tempo da loro determinato, il massimo grado di verità.

 

Tutte le circostanze che riguardano i protagonisti (Raffaele, terzo gemello di una famiglia napoletana detenuto per un cumulo di pendenze per gravi reati e Nico, direttore comprensivo e umano del carcere di Secondigliano) sono illuminate da un fulgido senso di verità. Una verità asciutta, priva di drammatizzazione che accompagna il corso della storia. Il termine storia potrebbe stridere con l’impronta documentaria fin qui descritta. Invece la forza del film è proprio quella di riuscire a cogliere, all’interno di questa cornice, dove è il reale a dover emergere, un termine narrativo che non riguarda tanto le biografie personali dei personaggi, ma proprio la loro evoluzione di persone nello spazio e nel tempo del film. Basta osservare Raffaello in una delle scene iniziali, spavaldo a colloquio con Nico e poi riprenderlo nel finale mentre scrive una lettera alla sorella malata.

Se assumere uno sguardo è un atto soggettivo che implica la messa in funzione di un moto psicologico, una forma di elaborazione che il soggetto compie e che inevitabilmente va a frapporsi tra il soggetto stesso che osserva e l’oggetto che viene osservato, allora nel caso del regista napoletano è la nozione stessa di sguardo a cadere, in favore di una più diretta e immediata rappresentazione. La volontà di Marra è quella di proteggere l’occhio (la mdp) dal condizionamento dello sguardo che, in quanto soggettivo, è corrotto in sé, consentendo così una compiuta aderenza tra la realtà e la sua rappresentazione. Per questo la mdp è il dispositivo che solo in ultima istanza interviene, ma senza alterare nulla di ciò che gli appare davanti. Grazie a questo metodo il regista e la sua mdp possono eclissarsi, rendersi invisibili ai personaggi del film che non si rappresentano, non si raccontano ma “vivono” dentro lo spazio filmico che il regista abilmente lascia loro costruire. Speriamo davvero che questo nuovo lavoro di Vincenzo Marra possa ottenere il sostegno che merita perché raramente il cinema italiano contemporaneo ha mostrato la stessa capacità di restituire la realtà per come si offre.

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