E’ la mattina del 5 settembre 1972, tre atleti americani incrociano un gruppetto di disorientati colleghi davanti al recinto d’ingresso del villaggio olimpico, cercano di fraternizzare ma questi sembrano non comprendere l’inglese. Li aiutano a valicare l’ostacolo e poi si separano, gli otto ragazzi estraggono dalle valigie mitra kalashnikov ed entrano nelle stanze della squadra israeliana. La strage è alle porte. Jim McKay, cronista sportivo della ABC, per primo dà al mondo intero la notizia del sequestro della squadra israeliana da parte di un gruppo armato appartenente all’organizzazione “Settembre nero”, già pronto a diramare le proprie richieste: liberazione di ostaggi palestinesi, attivisti della RAF e della Baader- Meihnof. Con una formula già sperimentata nei precedenti capolavori di impronta storica, Spielberg decide di avviare il film con un incipit folgorante, durissimo, sconvolgente, per attirare immediatamente, senza alcun preambolo, lo spettatore dentro una tragica ancorché misteriosa vicenda tanto recente quanto dimenticata, fino ad ora almeno. Si tratta di confrontarsi, dopo l’imponente, ed ancora in corso, lavoro sulla memoria dell’Olocausto, con un momento cruciale della storia israeliana e mondiale tout court. Innanzitutto ricostruire lo shock emotivo di un popolo e del mondo intero di fronte all’amara constatazione della solitudine degli ebrei. Proprio in Germania, a 30 km da Dachau, con il cancelliere Brandt che rifiuta l’autorizzazione ai reparti speciali del Mossad per tentare di liberare gli ostaggi e poi ne affida il compito a male addestrati reparti della polizia tedesca che saranno correi nella tremenda strage dell’aeroporto, in cui tutti i sequestrati vengono trucidati dai terroristi.
 
Questo filo rosso si rafforza, in vibranti parole che segnano un solco emotivo indelebile nella nostra memoria, Golda Meir, primo ministro dell’epoca, davanti ai suoi collaboratori: “E’ come con Eichmann”. Ora però il nemico non è sedato, non c’è stata una Norimberga nè il rogo del Bunker hitleriano, non si può esercitare la giusta soluzione del diritto contro macellai disseminati ovunque. “Ci sono momenti in cui una civiltà deve giungere a compromessi con i propri valori”. E’ la politica al suo grado etico e civile più alto: garantire la sicurezza dei propri cittadini interrompendo momentaneamente il corso delle normali procedure civili, assumendosene il fardello di fronte al mondo e ai posteri. Bisogna rispondere, “la responsabilità è solo mia” afferma stentorea l’esile donna con la dolorosa coscienza del passo che cambierà la storia.
 
E’ il momento della Vendetta, come titola il libro del giornalista George Jonas su cui si sono basati gli sceneggiatori Tony Kushner e Eric Roth, di stanare i principali responsabili di questo e di altri massacri, di sabotaggi e di rapimenti. Il film adotta da questo momento la struttura del thriller, d’altronde i codici del cinema americano dovrebbero essere chiari e quei critici che guardano un film americano pensando necessariamente di trovarsi di fronte ad un documentario dovrebbero ricordarselo, o al limite andarselo a studiare. Ma con la tensione crescente fino all’opprimente crisi di coscienza dell’agente capo Avner e dei suoi quattro colleghi, la sceneggiatura non apporta nessuna modifica rispetto al libro inchiesta che ce ne ha tramandato le vicende tramite le parole stesse di Avner.
 
La cura di Spielberg è semmai nell’affrontare da “fuori” la vicenda, lasciando ad un intenso dialogo tra Avner ed un terrorista palestinese il compito di confrontarsi e di non capirsi. Una cosa semmai viene tralasciata, che avrebbe forse zittito le tante polemiche idiote che hanno preso spunto dalle uccisioni mirate dei palestinesi per fare pendant con i vittoriosi estremisti di Hamas ora al potere. Pochi mesi dopo la strage di Monaco armate egiziane e siriane decidono di invadere nuovamente Israele. E’ la guerra del Kippur, il tentativo finale di regolare “l’anomalia” israeliana da parte degli Stati arabi confinanti.
 
Nell’equilibrio delicatissimo di un film così importante storicamente e dialetticamente si possono comprendere le ragioni per cui questo episodio, pur così importante per comprendere il sostrato mentale in cui nacque e crebbe la decisione di Golda Meir e l’adesione dei cinque agenti. Raccontare la vendetta succedanea alla strage di Monaco significa raccontare un pezzo fondamentale della storia di Israele e la storia di Israele è inscritta nella sua lotta per l’esistenza e la sicurezza. Lotta che costò non pochi errori, come l’omicidio del poeta Wael Zwaiter, amico di Pasolini e Moravia, proprio a Roma mentre stava presentando una traduzione de Le Mille e una notte. L’invischiarsi nella zona di nessuno dell’intelligence, dove le convinzioni etiche, politiche e civili sfumano in un indistinto paesaggio dove ci si trova tutti contro tutti, gli amici sono anche nemici, gli informatori condividono entrambe le parti, chi cerca e chi tenta di sfuggire o di rifarsi del precedente scacco. Quando Avner comincia a comprendere questo meccanismo la sua squadra è già decimata in maniera misteriosa, inizia a mettere in causa convinzioni prima erano ininterrogabili, perde letteralmente il baricentro razionale e fugge ad un passo dall’obiettivo numero uno: Ali Hassan Salameh. Si sente braccato da invisibili inseguitori, decide di abbandonare definitivamente la patria per cui aveva deciso di diventare un inflessibile angelo sterminatore. Non è degli esecutori il dubbio, ma degli uomini.

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