La bella gente non è affatto bella, come si può facilmente immaginare dalla sottesa provocazione del titolo, anzi è decisamente schifosa, ne siamo orripilati.

In breve, una coppia di cinquantenni radical chic, di vaga appartenenza ad una pseudocolta stagione di “sinistra”, con un figlio (Elio Germano) che sembra uscito dalla curva nord dell’Olimpico per celebrare la sua immensa coattagine, facendo un brutto  verso di se stesso, e fidanzato con una specie di mostro di Lochness pariolino la cui sgradevolezza è pari o forse addirittura superiore a quella di lui, questa simpatica coppia dicevamo, praticamente sequestra una giovanissima (e bellissima) prostituta ucraina con l’intento di “salvarla” dalla brutalità del mondo e specificamente dal suo violento magnaccia.

La storia finisce male, naturalmente, anche se la ragazza sembra acquisire una forza e una consapevolezza che probabilmente l’aiuterà a sopravvivere grazie anche alla disillusione causata dalle stupide crudeltà mentali che le sono state inflitte da parte della bella famiglia, punto.

Usciamo  sconcertati.

Il tema, è noto, esiste da sempre, trattato in molti romanzi, in un modo particolarmente efficace da quelli ottocenteschi, e indagato da molte discipline intellettuali del novecento. La Pietà, che viene passata al setaccio della realtà, rimanendone praticamente sempre offesa, è qualcosa che sebbene tocchi le nostre corde più sensibili, non eccita la nostra mente se non attraverso sublimi pagine già scritte o immagini altrettanto forti e profonde.

Sono cose che molti hanno attraversato anche personalmente, il mondo non è quel posto incantato dove il bene trionfa sul male, dove pochi individui malvagi e violenti vengono sconfitti dalla Pietà e dalla determinazione dei molti che vogliono la pace e l’amore universale (sarebbe pure un po’ palloso, diciamocelo), i molti vogliono soprattutto la loro, di pace, quand’anche non siano essi stessi, con un moto collettivo inconscio, ma talvolta conscio, a desiderare e a realizzare quel male che apparentemente combattono. E comunque il tema diventa appassionante quando l’approfondimento psicologico dei personaggi è portato allo stremo, quando la verità si fa strada attraverso prese di coscienza sempre più incalzanti e stringenti, quando sui nervi ormai scoperti è acuta la pressione che la mente, superiore rispetto al cuore ma spesso coinvolta in un cortocircuito emotivo, esercita con sempre maggiore lucidità e vigore, anche se persa nel vortice della torbida essenza della realtà. Nel cinema pensiamo a Bergman soprattutto, ma anche a Von Trier, in letteratura a Flaubert e a Dostoevskij.

Ma forse è una trappola. Siamo caduti anche noi, forse, nella trappola che Di Matteo ha apprestato con un film che sconcerta per la sua linearità semplificatoria che appare, per certi versi, perfino volgare.

Cercando la ragione dello sconcerto suscitato, ci domandiamo se i personaggi non siano volutamente sovraccarichi di grottesco caricaturale e non siano deformati a tal punto proprio per costringerci a uscire da quegli schemi interpretativi dotti e illuminati, ai quali ci compiacciamo di aderire anche per una sorta di autoassoluzione rassicurante che vorremmo ci collocasse, inevitabilmente, nella schiera dei giusti.

De Matteo ci sbatte in faccia tutta la nostra inadeguatezza.

La chiave del senso dello sconcerto, e del senso del film, potrebbe risiedere in questa brutale rivelazione: le categorie e le capacità  interpretative dell’animo e della mente umane sono state travolte, piegate dalla furia del liberismo economico e del suo portato “culturale”, dalla tragica vuotezza di una subcultura massificata e mercificata.  Quello che era materia della Cultura elitaria, la sola riconosciuta ed effettivamente operante, che veniva distillata attraverso un esercizio mentale rigoroso e raffinato e che benissimo traduceva la realtà dell’umano, inteso come realtà della classe dominante bene, possiamo illuderci che quella materia possa essere ancora indagata sviscerata da quel tipo di cultura, che quel tipo di cultura  esista ed operi, ma in realtà è morta e sepolta e gli intellettuali sono solo il simulacro di se stessi, della loro ragion d’essere.  Semplifico, ma il messaggio a me pare proprio questo, non so quanto sia condivisibile ma è comunque un punto di vista e il film, se sono validi questi enunciati, è coerente e ben lo rappresenta.

All’interno del film, che appare piatto nel suo perseverare nell’impietoso illustrare questo  concetto, sviluppato attraverso le scialbe interpretazioni degli attori (volutamente? Questo è un bel punto), il senso di indeterminatezza viene squarciato da alcuni momenti molto belli:  il libro di poesie russe, presente in casa e dato alla giovane prostituta diventa l’unica risorsa per l’umanità frastornata, una piccola costellazione capace di infondere una qualche speranza di redenzione all’interno di un vuoto esistenziale buio e sordo; ancora, quando il figlio e la ragazza vanno a prendersi un innocente gelato in paese, gli sguardi dei paesani, tutti uomini, che vengono indirizzati alla ragazza da tutti posseduta come per una riaffermazione di quel possesso, sono terribilmente reali  e la musica ritmica assordante rinnova e sottolinea la violenza e la sopraffazione. E l’ultima scena, quando lei, in attesa del treno, si rimette il rossetto dopo aver mostrato per giorni un volto puro di bambina, esibendo il volto duro della realtà, beh forse questi momenti valgono da soli tutto il film,  al di là delle intenzioni “didattiche” del regista.

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