Tff_Sean-Baker-_StarletSean Baker, che avevamo conosciuto qui a Torino nel 2008 per Prince of Broadway, motiva lo spostamento della sua macchina da presa da New York a Los Angeles con un laconico: «Credo che gli esseri umani non dovrebbero vivere in climi nei quali non possono sopravvivere nudi». In effetti in Starlet, film con cui Baker, a quattro anni di distanza, torna al TFF (anche stavolta fuori concorso), fa davvero caldo e l’abbigliamento è quanto mai succinto. Ma soprattutto a colpire (letteralmente) è la luce: abbagliante, sempre «sbagliata», ai limiti della sovraesposizione.

Più che illuminare o riscaldare, il sole sembra infatti bruciare le vite della San Fernando Valley, in particolare quelle di Jane e Melissa, ventenni amiche e coinquiline, che quando non lavorano passano le giornate a fumare erba, giocare ai videogiochi, portare a spasso il chihuahua Starlet. Di lavoro, a proposito, fanno le attrici hard.

Gioventù bruciate, dunque, ma nel senso proprio di abbrustolite dal nulla che viene appunto con l’abbagliamento, non maledette: in auto vanno piano e nel giro del porno ci stanno per una scelta economica, un impiego come un altro.

Addentrandosi nella florida industria dell’hard californiano (smuove complessivamente circa 13 miliardi di dollari l’anno), Baker e il suo cosceneggiatore Chris Bergoch non vogliono denunciare o moralizzare, quanto mostrare la banalità nascosta sotto la superficie di corpi perfetti e prestazioni da supereroi della copula. In primo piano, per fortuna, ci sono sempre i personaggi, non le teorie di un autore che osserva e giudica vite altrui. Anzi, per la verità, in primo piano – e come potrebbe essere altrimenti – ci sono i corpi, esposti con una generosità pigra che è l’esatto opposto, o forse l’altra faccia della medaglia, della pornografia. Tra l’indolenza di una posa stravaccata sul divano a guardare la tv (couch-potato) e la frenesia tutta artificiosa di una performance hard, per la bellissima Jane non c’è soluzione di continuità, né possibilità di distinzione. Gli ambienti in cui si muove sono spazi de-vitalizzati, asettici: perfetti per corpi che, si è detto, nell’illusione di una piena autodeterminazione si riducono in realtà a meri involucri. Lo squallore della sua routine («Facciamo un altro paio di film da ragazza della porta accanto e poi ti porto da un chirurgo per rifarti il seno», gli dice il suo produttore con disarmante nonchalance), il nulla che Jane fissa appena sveglia, è eloquente senza necessità di didascalie.

Qui interviene l’incontro con l’altro radicale da sé, nella persona dell’ottantenne Sadie, vedova solitaria e burbera, forse l’unica possibilità, per la vita di Jane, di trovare dinamismo e affettività.

La sinuosa Dree Hemingway (pronipote di Ernest, a quanto pare), nel ruolo di Jane, è poco più che esordiente; Besedka Johnson, straordinaria nella parte di Sadie, non è un’attrice professionista, come gran parte del resto del cast (qualcuno viene dritto dall’hardcore); la lavorazione si è svolta senza che sul set ci fossero dei ruoli definiti; la sceneggiatura è stata riadattata in corso d’opera durante le riprese. È il metodo Baker, quel guerrilla filmmaking che imbraccia le armi, oltre che contro Hollywood, anche contro il finto indipendentismo dilagante nel cinema nordamericano. Già con Prince of Broadway aveva dato vita a una riuscita eccellente, soprattutto nel cogliere, con la camera ad altezza del cuore, le sfumature del rapporto tra un bambino e un padre riottoso e impreparato. Qui, quattro anni dopo, il risultato sullo schermo appare maggiormente controllato, più attento, per esempio, alla composizione dell’immagine e alla sua resa cromatica, ma tenendosi al riparo dal rischio dell’artificiosità. Più maturo, forse. Il tempo, che è tutto dalla parte di Sean e di Jane/Dree, ce lo dirà.

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