Il film di Oliver Stone è uscito in contemporanea, in centocinquanta sale, il 16 aprile, all’indomani di quello che doveva essere un plebiscito di Maduro, candidato Chavista alle elezioni presidenziali. Il nuovo leader, erede del comandante Chavez, le elezioni le ha vinte per soli duecentotrentacinquemila voti. L’era post-Chavez dunque, si e aperta con la spaccatura del Venezuela in due fazioni che numericamente hanno la stessa forza. Il risultato elettorale colpisce e spiazza. E spinge a riflettere. Quella di Chavez è una figura esaltante, capace di ripopolare quell’immaginario rivoluzionario ormai orfano di eroi, e di stabilire un rapporto empatico, quasi mistico con il proprio popolo. L’America, quella sordida di G. W. Bush lo ha demonizzato. L’Europa, troppo profonde le differenze, non lo ha capito. La sua ascesa alla guida del Venezuela è stata interpretata come l’affermazione di un populismo di sinistra, con forte base di consenso popolare, segnato da tratti autoritari. Per il suo retaggio militare è stato definito un nuovo caudillo, cha ha esercitato un forte controllo sui media, sulla giustizia e sulle forze armate, e usato i suoi poteri per garantirsi una più lunga vita politica. Queste analisi però, non bastano a spiegare il fenomeno-Chavez. Quel tipo di carisma, la forte presa sulle masse, è un tratto tipico dei populismi latinoamericani, difficilmente spiegabili attraverso i paradigmi della cultura politica occidentale. In questo senso il film di Stone non fa un grande salto in avanti sul piano dell’efficacia didattica. E non perchè il suo documentario sia, come qualcuno ha sostenuto, un ritratto agiografico del comandante venezuelano, piuttosto perchè il regista americano sembra maggiormente interessato a proseguire la propria corrosiva invettiva, nei confronti dell’America e in particolare dell’amministrazione Bush.
All’interno di una  struttura tripartita, Stone dedica la prima parte della sua analisi al processo di demonizzazione di Chavez da parte della casa bianca attraverso gli organi di informazione. Le immagini di repertorio televisive, gli articoli di giornale, gli editoriali, i siparietti nei talk show, offrono un profilo del leader venezuelano distorto e strumentale. Nella prima mezz’ora del film Stone compie lo smascheramento del sistema di informazione americano denunciandone la sua connivenza con il potere politico e descrivendolo di fatto come il suo prolungamento ideologico. Nella seconda parte si entra nella biografia di Chavez: il fallito golpe, le elezioni vinte, il golpe subito, le sfide al Fondo Monetario Internazionale. Stone segue il comandante dentro i barrios, le periferie, il luogo natìo. I due dialogano, scherzano, parlano in modo familiare. Qui il regista fa emergere il lato politico e ideologico di Chavez, ma anche quello umano, demistificato e autentico, che si oppone a quello propagandistico offerto dai media statunitensi.  Nell’ultima parte Stone e la sua mdp compiono un interessante viaggio nei paesi latinoamericani governati da forze di sinistra. Un road movie attraverso le repubbliche bolivariane come il Brasile di Lula, la Bolivia di Morales, l’Argentina di Kristina Kirchner, il Paraguay di Lugo, l’Ecuador di Correa, la Cuba di Raul Casto. Attraverso le interviste a questi leader Oliver Stone tenta di restituire una quadro geopolitico che, secondo il regista, sta avviando una rivoluzione sociale all’interno di questi paesi e nei rapporti con gli USA.

Anche se, lo ripetiamo, il film di Oliver Stone, non ci è sembrato un processo di santificazione nei confronti di Chavez ma, piuttosto, un tentativo di destrutturazione dell’immagine del comandante costruita dall’informazione americana, al film manca la capacità di problematizzare una figura così complessa che per essere compresa necessita di un’analisi che sappia chiamare in causa le dinamiche endogene delle strutture politiche dei paesi dell’America Latina. Lo sguardo del regista si concentra quasi esclusivamente sulla politica immediata e sui rapporti tra Stati uniti e America Latina, costruendo così un istant-movie privo di ampio respiro e profondità analitica che a distanza di quattro anni appare già datato (l’esito delle recenti elezioni venezuelane è lì a dimostrarlo). Sarebbe stato interessante spiegare invece, attraverso la figura di Chavez, fenomeni propri dei paesi latinoamericani come la via nazionalista al socialismo quale reazione antiamericana, la personalizzazione carismatica dell’idea politica, la lunga e trasversale storia dei populismi, l’estraneità storica e culturale alle strutture democratiche così come noi europei le concepiamo. Ma forse è proprio l’antiamericanismo di Oliver Stone a produrre nel regista un approccio americanocentrico. Questo gli consente di esprimere tutta la sua avversione al sistema politico e mediatico americano, e di proseguire la sua crociata personale contro le zone d’ombra del proprio paese (gran parte della sua filmografia è segnata dallo svelamento delle contraddizioni americane), ma assumendo una posizione tale non può che realizzare un documentario a tesi nel quale ci si può facilmente riconoscere.

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