“Un doppio è tutt’altra cosa che un’immagine. Esso non è un oggetto ‘naturale’, ma non è neanche un prodotto mentale: né un’imitazione di un oggetto reale, né un’illusione della mente, né una creazione del pensiero […]. Esso si muove su due piani contrastanti ad un tempo: nel momento in cui si mostra presente, si rivela come qualcosa che non è di qui, come appartenente ad un inaccessibile altrove”, J. P. Vernant, Figurazione dell’invisibile e categoria psicologica del doppio: il Kolossos, in Mito e pensiero presso i Greci. Studi di psicologia storica, Einaudi, Torino 1984, p. 345 e p. 348).

Un ragazzo ebreo di Tel Aviv, Joseph, si presenta all’arruolamento per difendere il suo Paese, Israele. Aeronautica. Ma il suo sangue non funziona, non quadra. Lui non dovrebbe avere quel gruppo sanguigno, la genetica non è un’opinione. E dagli accertamenti successivi e angosciosamente incalzanti, risulta non appartenere nemmeno alla sua famiglia. E, disgraziatamente, neppure alla sua razza. Non è ebreo, è palestinese. Scambiato dall’infermiera durante l’evacuazione dell’ospedale in cui nacque nel 1991, dove un’altra madre aveva partorito il figlio che adesso è al posto suo. O lui è al posto dell’altro.

E anche il ragazzo che è il suo doppio, Yacine, scopre di non essere arabo, ma ebreo. Solo che si è spostato a studiare a Parigi, medicina. Il suo ritorno a casa (sua?), in Palestina, è il ritorno di uno sconosciuto in una terra straniera. Lui non è più lui, ma è un se stesso che contiene anche l’altro. Un “altro” che è anche il Nemico, l’Usurpatore. Perché i due popoli, le due razze, sono in stato di guerra.

La tragedia, qui dichiarata, equivale a quella di Edipo. I nostri due eroi sono incolpevoli e allo stesso tempo colpevoli. Non ci sono più regole, i punti cardinali si sono dileguati. Le identità sono saltate, o più esattamente si sono fluidificate.

Anche le loro famiglie sono una lo specchio dell’altra. Una sorella minore (rispettivamente Amina e Karen), una madre forte ma dotata di una umanità profonda (Orith e Leila), un padre aggressivo ed incapace di scendere nella piaga del tormento (Alon e Said). La simmetria viene rotta solo dal fratello maggiore palestinese, Bilal, che fa da innesco alle peggiori e più deleterie tematiche del conflitto in atto.

Come fa notare Vernant nella citazione che apre questo pezzo, non siamo in presenza di una psicologia, ma di una struttura profonda della nostra civiltà. La psicologia ha la sua forma espressiva nella commedia, la civiltà classica nella tragedia.

Ne Il figlio dell’altra non vi è una tragedia, bensì una delle forme archetipe de La Tragedia. E la si può toccare con mano, la vivi dentro di te, nelle fibre profonde del tuo essere, mentre scorrono le scene. Le tue convinzioni ed i tuoi sentimenti vengono scossi fino alla radice, nel profondo dell’essere, lì dove raramente si arriva. Lì, dove i due padri non osano sporgersi, in quell’abisso che solo una donna, una madre, può attraversare indenne.

Ma ritorniamo alla trama, perché il film contiene una evoluzione profetica, un proclama sommesso sulla nostra vita comune. I due ragazzi scoprono di non essere quel che credevano, ma Joseph in particolare (il presunto ebreo) scopre con il suo Rabbi che tutto quello che valeva per lui il giorno prima, ora non vale più. Il fondamento della sua fede (e finanche della sua costruzione psicologica) è crollato. La sua circoncisione non ha più alcun valore. Il suo credere, i suoi rituali: cancellati! Deve ridiventare, paradossalmente, ebreo. Mentre l’altro, l’Arabo o supposto tale, è invece più ebreo di lui.

E qui ti accorgi della totale arbitrarietà di questa sovrastruttura che è la razza, la religione, la credenza. Ti rendi conto della follia di una superstizione che fa di te un tutto o un nessuno, a seconda del tuo test del DNA. Dio non ti riconosce più, lo dice il medico. Splendido.

Sul fronte opposto, Bilal ha scoperto che suo fratello Yacine, quello che lui ha protetto per tutta la sua breve esistenza come un uccellino bisognoso di affetto, era in realtà un cuculo. Il figlio di un’altra nidiata, quella nemica: insopportabile. Quindi da odiare, possibilmente da scannare. I giovani, l’affermazione, l’intemperanza, l’ideologia, i tormenti della crescita. Mettici ancora una guerra di occupazione, un muro onnipresente che separa il mondo dei ricchi da quello degli straccioni, e il gioco è fatto. Tutto comprensibile, ma attraverso quella smorfia di ragione che ci guida negli incubi, quando accettiamo come logico ciò che è il contrario della logica. Solo che questa è la realtà. Immagina Gaza, poi ne riparliamo.

Entrambi i nostri due doppi non possono più essere quello che erano, non li fanno più essere gli altri ― ma al contempo non possono nemmeno diventare tutto ciò che fino al giorno prima avevano detestato, o odiato. Resterebbero in un limbo inespresso. E qui avviene invece il miracolo, la voce profetica. Che non è una parola, ma una melodia.

Il film è fatto di silenzi. Lunghi silenzi, di imbarazzo, di tormento. Silenzi che sono azione, evoluzione della storia. C’è una scena emblematica nel film, quando i due padri si incontrano, e vanno a prendersi un caffè insieme. Non hanno nulla da dirsi, non ci può essere una parola, perché quella parola non la possono dire loro. Però l’azione evolve velocissima, rappresentata dalle dita che si muovo isteriche verso una nuova accettazione della situazione. Guardandosi, comprendono forse in un barlume di lucidità, la follia che li circonda.

E’ il silenzio che opprime anche la scena chiave, la cena della famiglia palestinese, dove Joseph è andato a scoprire chi sarebbe stato senza lo scambio. Un silenzio infinito, strutturale appunto. E allora canta. Improvvisamente canta. Non può fare appello alla ragione, né alla comprensione. L’unica via di uscita è l’arte. E’ essere artisti, e vivere l’arte nella radice profonda.

Solo il gesto artistico ti consente di ritrovare te stesso e di rientrare nella comunità degli uomini. Solo l’arte è capace di lavare le ferite e di innalzare i cuori oltre le miserie della stupidità. Così il doppio più debole ed infantile, apparentemente il più sfigato, trova la via di uscita dal labirinto: l’unica chiave che può risolvere la tragedia.

Ora, la nostra bravissima regista Lorraine Lévy sostiene che i due ragazzi siano uno la metà dell’altro. La scena finale nel palazzo diroccato con Joseph pensieroso, sommata a quella di Yacine sullo stesso palazzo e con lo stesso atteggiamento, fanno un panorama a 360 gradi.

Mi permetto di dissentire: no, i nostri due eroi sono ognuno esattamente il doppio di se stesso ― e al contempo il doppio dell’altro, in una sorta di quadrangolo incrociato. E quando ciascuno di noi incontra il suo doppio ― si sa per certo ― uno dei due dovrà morire, perché l’altro possa vivere.

Le due famiglie devono diventare una, per salvarsi. I due ragazzi dovranno diventare ebrei ed insieme arabi, israeliani e palestinesi al contempo, cioè né l’uno n&eacute
; l’altro, ma figli della umanità, vale a dire di quell’unità superiore che sola ci accomuna, laddove la meschinità delle razze (e dei razzismi) la vogliono incatenata a terra, quadrupede e schiumante.

Non se ne esce con l’economia, che è una guerra proseguita con altri mezzi. Non se ne esce con la religione, che è un fanatismo proseguito con altri mezzi. Non se ne esce nemmeno con la politica, che è il pascolo delle greggi umanoidi. Non se ne esce con la genetica o con la scienza, capaci di arrivare solo fino alle soglie dell’animo, per quanto la nostra civiltà le abbia idolatrate. Ma sono scienze di quantità, non di qualità.

Vorrei aggiungere che il dono di far provare emozioni così forti ed intense è un miracolo che accade solo nelle opere d’arte, e supera perfino le intenzioni coscienti dell’autore o dell’autrice, possedendoli.  Solo l’arte è capace di portare le stelle del firmamento nelle profondità misteriose del cuore degli uomini. E, secondo Kant, di renderli perfino migliori.

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