di Serena Soccio/ In un’epoca in cui i confini collassano, si liquefanno, in cui si condividono tecnologie, media, contesti e formati, in cui non ha più senso catalogare, etichettare in rigide categorie di genere, possiamo attraversare senza alcun passaporto (almeno qui) il labile confine tra mondo del cinema e arte visiva e viceversa. Lo sa bene Nicolas Winding Refn, figlio d’arte che fin dal titolo strizza maliziosamente l’occhio all’arte concettuale senza troppi indugi e, a guardar meglio, al panorama italiano.
Sono tanti i riferimenti a Neuman, Beyus, Pistoletto, fino ad arrivare a Cattelan e ovviamente Beecroft.
Se si pensa al neon e a qualcosa che riguardi l’arte non può non sovvenire l’arte povera, quel movimento nato tra gli anni 60 e 70 che ha utilizzato ampiamente il famoso gas e che si manifestava essenzialmente in un gesto di riduzione, di impoverimento del segno, per ridurlo al suo archetipo, utilizzando come mezzo i materiali cosiddetti poveri, il ferro, il legno, la plastica, la terra, l’acqua, e per l’appunto la luce.
L’intento era quello di tornare all’origine, verso le esperienze primordiali, abbassando al minimo la tecnica, gli aspetti pittorici, più propriamente artistici per privilegiare un vitalismo naturale degli elementi che collaborasse con l’opera, senza imporsi su di essa, creando cioè una relazione continua tra spazio-ambiente, fruitore e materia.
Si pensi ai lavori di Mario Merz in cui l’artista affascinato dalla “luce” del neon e dalla poetica informale, ne rielabora il concetto intervenendo sulla forma; egli modula la luce, la piega, la trasforma, la rende viva (o ne duplica la vitalità essendo già costitutivamente viva), in divenire, quasi nuova “creazione”.
E’ su questa suggestione che ripenso al titolo scelto da Refn The neon demon, come simbologia di qualcosa che si è trasformato, un diamante prezioso che subisce una profonda modificazione attraverso la contaminazione con altri elementi che ne intaccano la purezza della condizione primaria. La materia originaria, dotata di luce (da cui anche lucifero) sulla quale una mano funesta, un evento improvviso sono intervenuti a cambiarne l’essenza, a distorcerne il senso.
O semplicemente su un piano tradotto in forma, uno spostamento da uno sguardo bidimensionale alla terza dimensione (la tridimensionalità del diamante come la scultura luminosa di Merz) o a ciò che non si vede oltre la telecamera, al cambio di prospettiva girando intorno all’opera, all’ombra scaturita dall’inquadratura di sguincio.
L’intervento di Merz è sempre vitale, gioioso, Refn indaga invece con la stessa attitudine formale di un artista concettuale, l’oscurità contenuta nella luce accecante del governo della vanità, nella struttura fagocitante dei desideri indotti che il meccanismo della moda produce attraverso lo scollamento dalla realtà, con la proposta di un ideale che si muove serpeggiando su una superficie abissale. Siamo immersi nel mondo allucinato del sogno di gloria di Jesse, inquietante e sprovveduta (Cappuccetto Rosso?) sedicenne dotata di bellezza ipernaturale alla volta dell’oscura Los Angeles mannara. Gli elementi della fiaba vengono utilizzati come filo emozionale sull’esile struttura narrativa miscelati sapientemente su un multipiano semantico, alle finissime tecniche di seduzione ben note alla pubblicità.
Le inquadrature su Jesse sono, come la fotografia di moda predilige, sempre frontali, bidimensionali, statiche congelate nella loro estrema bellezza, praticamente morte ma in fondo “le modelle” secondo la logica malata dello sfruttamento del sistema-moda non sono che zombie, vampiri senza anima, costrette alla fame per mantenerne il rigor mortis, senza pulsioni vitali se non, estremizzate qui dal regista, addirittura attraverso il cannibalismo.
Lo sguardo di Refn si stacca dalla bidimensionalità della fotografia e si fa più esplicitamente tridimensionale attraverso alcuni personaggi: il fotografo che “ne ruba l’anima” scrutando per la prima volta il corpo di Jesse da tutte le sue angolazioni, per poi come in preda ad una premonizione, denudarla della patina superflua di “naturalezza” e consacrare il battesimo della carriera “ricoprendola d’oro”. Oppure lo sguardo morboso, solitamente attribuito a un uomo per altro, della truccatrice che la osserva con insistente curiosità necrofila, quasi a volerne afferrare il segreto ultra-epidermide o forse insediarsi e impossessarsi di quell’involucro feticcio perfetto.

Io non voglio diventare come loro, sono loro che vogliono diventare me dice Jesse ormai contaminata dall’allucinazione del male, l’uso della camera che passa da frontale (da podio, da spettacolo su un palco, simbolizzando l’egemonia della bellezza idealizzata) a laterale per scorgerne un’immagine inaspettata, una sbavatura, un’esitazione nascosta, un difetto.
Il cinema credo sia spesso questo scarto.
Sembra che Refn non voglia sedurre gli animi o ingannare la ragione, ma piuttosto sia interessato a sedurre i sensi rimanendo su una superficie che enfatizza e diventa soggetto-oggetto rappresentando l’apparenza.
E qui ancora un tributo alla grande maestria di colui per cui “le cose mostrano la loro molteplice essenza”, Dario Argento, i cui richiami dai colori al sintetico della musica sono palesi: il blu profondo, gli specchi, il rosso sangue, l’oro nonché a Lynch, al barocchismo di Greenaway, o al simbolismo del più criptico Jodorowski.
Inutile cercare una linea narrativa coerente, è quasi videoarte, essendo basato essenzialmente sulla commistione di immagine e suono, su una violenza di esposizione tipica di certi prototipi di teatro performativo degli anni 80-90 e di molta citata cinematografia, al contrario della quale, qui forse a prevalere è solo la sensazione di un estetizzante assedio visivo.

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