Pascale (Isabelle Huppert) è una donna con due figli e un ex marito per lo più assente, che di giorno in giorno si ritrova a non accettare più questo ruolo -prima donna e poi madre, deve aver pensato a un certo punto guardando il suo riflesso ancora attraente sui vetri delle finestre e delle porte. Ma che fare? Seguire i propri desideri o continuare a subire i limiti? Il film di Lafosse è dedicato “ai nostri limiti”, ed è una dedica che alla fine non troverà uno scioglimento sicuro, nessuna forzatura in alcun senso a dare risposta a uno dei quesiti che più assillano, in particolare, noi donne. Anche perché la risposta, in questo caso, è necessariamente più articolata e complessa della domanda. Pascale dopo aver lasciato un marito più figlio che padre, e ancor meno compagno, a dispetto delle apparenze (passo fermo, pancia rilassata, barba folta e cardigan d’ordinanza), dedica la propria vita ai due figli gemelli. Li cresce sola, con piglio energico ma confondendo i ruoli (non chiude mai la porta del bagno, non ribatte come dovrebbe alle insulsaggini infantili ed aggressive dei gemelli, abbassa una volta di troppo lo sguardo, risponde al gomito geloso del figlio, che invade il tavolo, sostenendo con una mano incerta il viso stanco; e ancora le mani della Hupper/Pascale spesso sono raccolte nel grembo). Indipendente a tratti, si ritrova più spesso a dover dipendere dalle richieste possessive dei figli, a dover limitare la tirannia di Thierry (Jeremy Renier, specializzato oramai in ruoli di eterno bambino – era il padre/ragazzo nel film L’Enfant dei fratelli Dardenne) “stai diventando sempre più come tuo padre”, gli dice arrabbiata: ovvero come investire i propri figli dei ruoli spesso subiti, tanto più perché interpretati, nei rapporti coniugali. Pascale ha un nuovo compagno, un cuoco tedesco con un accento incredibilmente dolce (casacca creativa, pancia piatta, sorriso e slip simpatici), che le chiede attenzione e la coinvolge in nuovi progetti di respiro lungo, perché la vita, si sa, è breve. Vuole metter su un agriturismo insieme e l’unica possibilità per farlo è vendere la casa di Pascale. Nuda proprietà è d’altra parte il titolo originale: un contratto di diritto civile che permette di vendere la proprietà della casa e tenersi l’uso vita natural durante. Metafora probabilmente della scissione che Pascale vive sulla propria pelle, una pelle delicata, ancora giovane, non soddisfatta dalle sole carezze familiari. Pelle espropriata dell’uso. Il figlio/marito non accetterà tali novità e finirà in tragedia. Una tragedia annunciata, in qualche modo, ma la cui prevenzione viene messa da parte, irresponsabilmente rimandata: ancora i limiti (nella doppia accezione di vuoto da riempire e di strabordamento –l’assoluto che incombe- da contenere), l’incapacità a rinegoziarli, l’inadeguatezza a ridisegnarli o, se il caso lo richiede, a superarli. O si è dentro, immanenti, o si è fuori, trascendenti. Ma la realtà è il più delle volte un compromesso più o meno ben riuscito tra queste due opposte spinte, centripeta e centrifuga si direbbe. Thierry è un giovane uomo difensivamente egoista e narciso che riesce solo a chiedere, a prendere (appagato dal solo elementare impulso a scaricare la propria tensione sessuale), incapace di amare forse per la paura di venire nuovamente abbandonato (la separazione dei genitori). Significativa, a tal proposito, è la scena finale in cui il padre, finalmente presente e responsabile (il tardi, sembra dirci, è comunque preferibile al mai, la correzione alla rinuncia o all’idealizzazione), gli dice che nessuno ha colpa del fallimento dell’unione familiare “ci abbiamo provato e non è andata”. Thierry reagisce a questa rivelazione come un bambino a cui crolla un castello -un castello di carte rubate agli altri perché in qualche modo percepite come legittimi corrispettivi di presunti torti subiti- piangendo sconsolato. L’altro fratello, François (Y. Renier), è quello più mite, più comprensivo, che chiede ma prova anche a dare, timidamente, però, troppo timidamente. Incapace di contenere la deriva violenta e possessiva del fratello poiché anche lui, di fatto, incapace di separarsi dalla madre. Inadeguato, meglio, mancante a far seguire alla maggiore consapevolezza e sensibilità, delle azioni incisivamente conseguenti. Di determinare un cambiamento. Di riparare un torto presunto con una ragione ben assestata. Questo, in qualche modo, il reticolo psicologico rappresentato dal pur misurato Lafosse. In una messa in scena asciutta, corretta (nel senso ampio delle correzioni da apporre alle cattive abitudini e alle possibilità multiple) che sceglie i giusti tempi per permettere a chi guarda di penetrare dentro le immagini fisse, immobili (inquadrature a camera fissa per lo più), attente a mostrare le cornici e le geometrie degli spazi (i limiti e gli spostamenti possibili, l’idea di un campo d’azione non infinito). Un realismo che più che riprodurre gli elementi del reale si impegna a ricercare le connessioni nascoste sulle quali si regge l’edificio delle relazioni, familiari in questo caso. Un modo di guardare alla realtà che ricorda Haneke, pur senza la sua profonda capacità d’analisi, con quella scelta di dare spazio e tempo a quello che accade dentro l’inquadratura, sì da creare in noi un’attesa tutta basata sui movimenti minimi, i piccoli scarti augurati, gli imprevisti che, quieti e nervosi, si agitano dietro il primo piano (il campo lungo è lo sguardo preferito del regista). E sempre ad Haneke (pensiamo al suo Funny Games, in particolare) fanno pensare gli scoppi violenti che d’improvviso lacerano l’inquadratura e mandano in pezzi, letteralmente, la realtà dentro rappresentata. Detonazioni sempre superiori alle attese, in qualche modo, e attese che allo stesso tempo rimarranno comunque frustrate: l’evento avvenendo altrove (più in là, a significare l’incessante movimento della ricerca) in un fuori campo che toglie la sicurezza abituale dello sguardo che inquadra e contiene (limiti). Il corpo ambivalente di Isabelle Huppert (passo controllato e sguardo diretto verso l’alto) si presta efficacemente alle diverse spinte che agiscono in Pascale. Basta osservare il suo portamento un po’ curvo, esile nella struttura, prendere vita nei giochi amorosi con Jan; il suo sguardo piegato, quasi domo, sembra alzarsi all’improvviso, ribelle. E poi il ritmo del suo passo, che sa essere stanco ed esitante quanto energico e libero: un capolavoro di slancio e contenimento, una mappa in cui poter leggere in qualche modo tanto i piccoli cambiamenti – le ”correzioni”- quanto i più sfuggenti e ambigui slittamenti dell’anima, che qui è il caso di dire diventa corpo. La Huppert ci ha abituati ai silenzi e alle attese, in tal modo lasciando il tempo alle cose di accadere e a noi di rendercene conto, di capire il perché “le cose cambiano” (sarebbe interessante vederla alle prese con un racconto della scrittrice canadese Alice Munro, a proposito), tanto quanto agli scatti, a volte impietosamente brutali, e alle (auto)distruzioni, febbrili (la sua Emma Bovary, nel bel film omonimo di Chabrol, è, in questo senso, quasi insostenibile). Una forma di rispetto, sembrerebbe, che in ogni caso ci chiede sempre coinvolgimento e attenzione, col timore che prima o poi ci sarà una domanda alla quale dover rispondere, un conto da pagare. L’esperienza è rischiosa ma al tempo profonda
e affascinante. A noi la scelta di attraversarla o meno.
[marzo 2007]

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