L’occhio di Pieter Bruegel osserva la vita con lucida spietatezza.Coglie i particolari più insignificanti della cultura popolare trasformandoli in tracciati simbolici. Visionario come Hieronymus Bosch  ama ritrarre i vizi della società in cui vive, il degrado morale dell’individuo, gli istinti più bassi attraverso un immaginario demoniaco e folle che rigetta uno strabordante Inferno sulla Terra. Così il pittore tra il tragico e il grottesco inventa il suo esclusivo universo fatto di contaminazioni tra il mondo umano e quello animale. Un’emorragia onirica di mostri immaginari che invadono e sovvertono il quotidiano accanendosi sull’uomo.  A questo incredibile visionarismo Bruegel  riesce a contrapporre un rigorosissimo realismo, un’attenzione per l’essenzialità dell’esistenza umana. Nel dipinto La salita al Calvario del 1564 il pittore fiammingo rinuncia al fantastico, spegne ‘i suoi effetti speciali’ affidandosi solo alla meccanica delle azioni umane e all’immanenza della natura che sovrasta l’individuo.

Affronta una tematica sacra raccontando fatti concreti e attualizzando le vicende del Cristo. Una grande cartografia dell’umanità.

In un enorme campo lungo vengono distribuite svariate microscene con più di 150 personaggi in cui non c’è un protagonista. Il Cristo è posto al centro della composizione nel momento in cui cade sotto il peso della croce ma quasi scompare nel magma del popolino indifferente. In questo modo Bruegel oltre a stimolare lo spettatore ad un osservazione attenta, sui contenuti nascosti dell’opera, vuole sottolineare l’insensibilità dell’animo umano, la sofferenza dell’abbandono, l’esser lasciati soli e dimenticati.

Come nasce un dipinto di questa complessità narrativa? Quali sono i riferimenti a cui s’ispira l’artista per la sua creazione? Quali sono le storie e gli stati d’animo nascosti dietro ad ogni personaggio?

Il regista polacco Lech Majewski, attraverso il suo ultimo lungometraggio I colori della passione/ The Mill and The Cross, prova a rispondere a tutti questi quesiti attirando letteralmente lo spettatore all’interno dell’opera La salita al Calvario e ricostruendo il suo processo creativo.

Oltrepassiamo il confine di quel punto di vista alto e lontano impostoci dal pittore fiammingo e ci ritroviamo dentro l’opera a scorgere in primo piano alcuni personaggi.

Attraverso una lenta carrellata orizzontale seguiamo l’artista che immagina il suo dipinto ancor prima di iniziare i bozzetti. Ne discute col suo amico e collezionista d’arte  Nicholas Jonghelinck. Come un regista sul set si aggira tra i personaggi, sistema le vesti e le posizioni in un grandioso tableau vivant.

“Il mio dipinto dovrà raccontare molte storie, ed essere grande abbastanza da contenere il tutto!” (P. Bruegel)

Si prosegue col risveglio del mattino entrando nella vita di alcuni personaggi e in quella dello stesso pittore sullo sfondo di una realtà storica particolarmente difficile.

Guerre, saccheggi, miseria e i fermenti provocati dalla Riforma Protestante. Le Fiandre erano tiranneggiate dalla brutale occupazione spagnola. La nostra guida sarà sempre Bruegel interpretato da Rutger Hauer che si muove tra la realtà e la dimensione immaginaria del suo dipinto svelandoci le sue simbologie. Oscuri presagi di morte come i corvi, i teschi di animali , la macabra ruota issata sull’altissimo palo dove venivano lasciati seccare i cadaveri degli uomini giustiziati. Il mulino che dall’alto di una rupe domina sulla composizione come occhio di Dio. Secondo Bruegel: “ Il Grande Mugnaio del cielo che macina il pane della vita e del destino”.

Nel dipinto originale possiamo vedere il mulino solo all’esterno. Nel film Majewski inventa e ci mostra il suo enorme interno buio e cavernoso. Il possente meccanismo che lo fa muovere sembra animare l’intero universo e l’ordine del tempo col suo piccolo guardiano che controlla il lavoro delle pale. Dopo gli scorci sulla vita della coppia di contadini, dell’eretica, dei bambini, dei minacciosi soldati spagnoli si ritorna ossessivamente, ciclicamente, sempre al grande tableau vivant in cui prosegue la vicenda del Figlio di Dio visto come un riformatore condannato per eresia. Insieme alle altre storie si svolge anche la sua in tutte le tappe che lo condurranno fino alla crocifissione.

Così l’opera è nella vita e la vita è nell’opera.

Quando tutto infine è compiuto, il ciclo si spezza e il viaggio è giunto alla sua conclusione. Usciamo dal sogno con una lenta carrellata all’indietro. Ricompare il dipinto originale nelle stanze del  Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Un’opera filmica basata sul libro The Mill and The Cross scritto dal critico d’arte Michael Francis Gibson, sul consolidato visionarismo registico di Majewski e sulle più innovative tecnologie di computer grafica e 3D.

Inizialmente era destinato ad essere proiettato nei musei ma dopo il Sundance Film Festival 2011 è stato acquistato da 55 Paesi e quindi passato alle sale cinematografiche. In Italia è stato distribuito solo in 20 copie.

Majewski è un incredibile concentrato di tutte le arti. Poeta, saggista, compositore, regista cinematografico e teatrale.

Già in passato attento indagatore dell’anima e dell’opera di colleghi artisti come in The Garden of Earthly Delights vincitore nel 2004 del Grand Prix al Festival Internazionale del Film di Roma  o Basquiat di Schnabel di cui firmò la sceneggiatura. Capace di manipolare il visionarismo e il gioco del tableau vivant non solo in chiave poetica ma anche più ironica come nella commedia surreale Angelus o in Gospel According To Harry che risente della permanenza negli Stati Uniti.

Le sue opere cinematografiche si contraddistinguono per l’evento imprevedibile (epifanico) generato da una grande ricercatezza estetica surreale disseminata di elementi simbolici che riescono a creare un’efficace narrazione. Una bellezza visiva ipnotica, un’occasione per osservare intimamente e riflettere attraverso un’immagine riccamente colta che simultaneamente è cinema, teatro, pittura, poesia e video installazione. Vittima sacrificale di questa scelta artistica è l’interpretazione attoriale che viene inevitabilmente repressa non trovando più spazio e motivazione. L’attore ha la stessa importanza di un elemento scenico è un abitante costipato di un tableaux vivant. La sua recitazione è alienata e il suo corpo diventa un tassello nella complessa costruzione figurativa. Così rimangono congelati in un immobilismo etereo i volti di Rutger Hauer, Charlotte Rampling e Michael York. Perfettamente confezionati per un museo delle cere.

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