[***12] – Il canto dolente di una donna, in una lingua antica e rara, risuona nel buio della sala. Parole di un fato inenarrabile sorgono dal fondo dello schermo: la donna racconta che è stata violentata mentre era incinta, accanto al cadavere del marito. Poi la voce tace e l’immagine prende forma: vediamo il volto pieno di rughe di una vecchia sul suo letto di morte. Un’altra voce, un altro canto tenta di risponderle, di confortarla, è quello di Fausta, sua figlia, una ragazza dall’enigmatica bellezza. Così inizia Il canto di Paloma di Claudia Llosa, premiato con l’Orso d’Oro e il premio Fipresci all’ultimo festival di Berlino, immergendoci subito in un mondo lontano, sconosciuto, segreto e atavico: quello della comunità quechua in Perù. Il film ci narra la vicenda una giovane donna traumatizzata alla conquista della sua libertà interiore.

La storia di Fausta, protagonista del film, prende il suo avvio durante la guerra civile fra le truppe del governo e la milizia del Sentiero luminoso. In questo periodo di terrore, durato dal 1980 al 2000, un numero imprecisato di donne è stato violentato, principalmente nelle comunità rurali dove risiede la popolazione autoctona. Il trauma è stato così profondo da passare, secondo la tradizione popolare, alla generazione seguente attraverso il latte materno. Questa patologia viene designata con l’espressione la teta asustada (titolo originale del film) che significa “il seno spaventato”. Fausta ne soffre e vive in uno stato perenne di angoscia e di insicurezza. Per impedire che il male che aveva colpito sua madre possa colpire anche lei, introduce una vera e propria “barriera”, nella sua intimità di donna.

Fuggite dalla loro terra natale le due donne vivono ormai da anni nella periferia di Lima presso la famiglia dello zio Lucido, organizzatore di feste nuziali. Alla morte della madre Fausta, disfatta dal dolore, viene colta da uno svenimento. Lucido la porta in ospedale e apprende la vera ragione del suo malessere: la ragazza ha una “patata” all’interno della sua vagina, il tubercolo inizia a germogliare. Bisognerebbe operarla.

Al fine di raccogliere i soldi necessari per la sepoltura della madre nella sua terra d’origine Fausta, che non ha mai osato lavorare in città, decide di andare a servizio come cameriera. Spera di ottenere un anticipo ma Aida, la padrona di casa, non è disposta a darglielo. Mentre il tempo passa, il corpo della madre si decompone lentamente. Un giorno Aida, concertista frustrata in crisi d’ispirazione, sente Fausta cantare e le propone uno scambio: per ogni canzone nuova le darà una perla della sua collana. La vita segue il suo corso: Fausta lavora ogni giorno ma non viene mai pagata e il cadavere della madre attende ancora. Finalmente il concerto di Aida ha luogo ed è un vero successo. Sulla via del ritorno la donna, accecata dall’invidia, butta Fausta fuori dalla macchina lasciandola sola di notte in mezzo alla strada. La ragazza disperata, decide di non lasciarsi più sfruttare, andrà a prendersi le perle che le spettano e di cui ha urgentemente bisogno. Con le perle strette nel palmo della mano Fausta sviene di nuovo, ma questa volta chiede di essere operata. Ormai guarita potrà deporre il corpo della madre su una spiaggia lontana, di fronte all’oceano.

Il canto di Paloma ci immerge in un mondo crudele e poetico dove vita e morte, malattia e bellezza, speranza e paura si danno la mano. Anche se filmata con pudore, la coesistenza di aspetti macabri e momenti di gioia che caratterizza il film può essere sconcertante per uno spettatore europeo, ma la regista mostra di sapere associare il mostruoso e il grottesco con la delicatezza e la grazia, trasportandoci in un universo magico di saggezza ancestrale.

Punto focale di Il canto di Paloma è un archetipo stratificato, molteplice ed ambivalente: “La patata viene utilizzata come uno scudo protettore da Fausta ma, in primo luogo, è un emblema molto forte dell’identità peruviana, è il simbolo stesso della terra madre, della forza delle radici, della fertilità; allo stesso tempo essa permette di comprendere l’idea del trauma, del peso di un passato che vorremmo nascondere, dimenticare ma che finisce sempre per riapparire” ha spiegato Claudia Llosa alla stampa.

la teta asustada

Una trama complessa di associazioni attraversa il film: così la terra, che rappresenta la vita ma anche il dolore,  rimanda all’oceano, luogo di purificazione e di oblio. La patata, prodotto povero e ordinario, rinvia alla perla, a quanto di più prezioso nasce all’interno di una conchiglia. Fausta rinchiude in sè il dolore e la sofferenza del corpo ma anche la forza dello spirito e la bellezza della creazione in una complementarità che rispecchia la concezione andina del cosmo.

Il film è un ritratto della comunità quechua in bilico fra la rivendicazione della sua identità e la necessità di integrarsi nella vita “occidentalizzata” dei centri urbani. Attraverso l’uso del colore, della luce e di una messa in scena curata nei minimi particolari Claudia Llosa riesce a ricreare questi due universi non solo socialmente ma anche emotivamente agli antipodi.

Il passaggio dal mondo esterno all’interno della dimora padronale è sintomatico. Sulla piazza del mercato, colorata, vivace, piena di gente e di vita, si apre un enorme portale: chi passa questo varco si trova improvvisamente in un universo silenzioso, buio e solitario. La casa di Aida è presentata come un enorme mausoleo, in cui abita una sorta di donna-vampiro, un’artista fredda e arrivista. Il patto che Aida stipula con Fausta, una perla per una canzone, allude evidentemente ad uno sfruttamento che non è solo fisico ma anche spirituale.

 

Un ulteriore pregio del film risiede nella capacità della regista di amalgamare perfettamente nella finzione  degli elementi dal valore documentario. Le scene di colore locale, girate tutte con un cast di attori non professionisti, sorprendono per la loro naturalezza e la loro autenticità. In particolare le sequenze dedicate ai vari matrimoni popolari sono dei veri momenti di grazia. Le foto di famiglia davanti a dei teloni di tramonti tropicali, il lungo strascico della sposa decorato di palloncini colorati, il corteo degli invitati che ballano  trasportando i loro regali, la danza all’aperto in un recinto improvvisato da un cerchio di sedie, costituiscono un inventario quasi etnografico di immagini memorabili. Spesso filmate in piani molto larghi queste scene colpiscono per la bellezza dei loro contrasti cromatici: il bianco e nero degli sposi e i vestiti variopinti degli invitati risaltano come delle gemme sulla sabbia del paesaggio circostante, arido e brullo.

Claudia Llosa rivela il suo talento anche nella scelta della sua interprete principale l’incantevole Magaly Solier, scoperta per caso qualche anno fa in un villaggio andino e diventata in seguito la protagonista del suo primo lungometraggio Madeinusa (2006). Attrice piena di fascino e di carisma, Magaly Solier impone la sua impronta a tutto il film con la sua grazia schiva ed enigmatica incarnando, nelle minime sfumature, il carattere complesso ed ermetico di Fausta e cantando le bellissime canzoni in quechua di cui è anche la compositrice.

Il canto di Paloma ha ampiamente meritato la sua ricompensa a Berlino; è un film complesso che tocca dei problemi politici e sociali, denso di emozioni, esteticamente affascinante, duro ma liberatorio al tempo stesso. La storia di Fausta, giovane donna  traumatizzata alla conquista della sua libertà interiore, ci insegna infatti che è possibile trasformare il dolore in speranza.

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One thought on “Il Perù crudele e poetico di Claudia Llosa

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