Premessa. Anzi due premesse. Winter boy-Le Lycéen è un film bellissimo. Le Lycéen è un film necessario. Christophe Honoré ci ha abituati ad aspettarci l’imprevisto, a dar credito alla possibilità di fare ancora esperienza del cinema libero di sperimentare, di una simultaneità del sentire, di una coesistenza di registri e stati d’animo diversi senza mai perdere la propria peculiarissima espressione, il suo sguardo singolare e dichiarato. I fantasmi angosciosi e le intime lacerazioni, le cospirazioni paranoiche di molti suoi personaggi –che appaiono sempre singolarità affettive e insieme fenomeni estetici- non mancano mai di muoversi lungo percorsi di desiderio e di conoscenza in rapporto con processi di verità non emendabili.

La prima e l’ultima scena di questo clamoroso film sono, e rispettivamente, presagio e affrancazione. Due soggettive magnifiche: la prima su una strada sporca di neve, di una provincia senza nome, in cui lo sguardo si avvicina su un oggetto posto sul bordo della strada, una pietra con dei fiori, che capiremo implicata con lo sguardo della soggettiva; la seconda sul giovane protagonista, ripreso in primissimo piano dopo due ore di vita densissima, attraversata da lacerazioni e slanci, con Lucas che con la mano copre la mdp e dice: basta così.

E’ la storia di un lutto, di un dolore che gela tutto, di una identità che solo a tratti riesce a esprimersi con tenerezza e desiderio, molto più spesso venendo paralizzata da insicurezza, sensi di colpa (sovente proiezioni altrui) e scoppi di violenza. Ma il lutto lo richiede. Il lutto non è garbato. Chi crede che il lutto sia integrabile in una esistenza normale, in un equilibrio medio e razionale, compatibile con le comuni incombenze e i velati ottimismi, ecco penso che si sbagli. O che forse l’abbia evitato. Il lutto per una persona che si è amata e si è odiata -molto spesso di questa ambivalenza si tratta, e tanto più se si sta parlando di un padre (sempre divorante, direbbe il Guadagnino di Bones and all, “pasto completo”)-, è una esperienza devastante e deragliante. Un tempo selvaggio, uno spazio spezzato e ambiguo, esposto tra paralisi e movimento continuo (ma è nella ripetizione senza meta e senza utile, che finisce poi per apparire la differenza?); l’urgenza, se non lo si nega, diventa quella della perdita, dell’erranza e dell’interrogazione, da cui appunto alla fine con un gesto, un cenno fatto prima di tutto a se stessi, poter dire: dai, basta così. Ed è di Honoré, dello stesso regista, la soggettiva all’inizio e alla fine del film. In quanto è di una sua esperienza realmente vissuta che si sta anche parlando. La morte del padre. Le conseguenze. Il buio e poi la spinta a reagire, una spinta molto scomposta, forse l’unica con cui, date le condizioni, riuscire a disegnare una apertura e non una chiusura –apertura come condizione di possibilità per andare avanti, per cambiare: elemento quasi consustanziale a un effettivo attraversamento del lutto. La fragilità e la rabbia. Il desiderio e l’aggressività.

Il film di Honoré è una meteora bruciante ma ha la grazia dell’epifania. E in questo ricorda il memoir di uno scrittore che non ha avuto il riconoscimento che merita, Harold Brodkey, che in Questo buio feroce, portato in scena anche da Pippo Del Bono, parla della sua morte, avvenuta per Aids nel 1998. “Come visitare la perdita nella sua forma più pura e monumentale, questo buio feroce, che oltre ad essere sconosciuto, è un buio in cui non puoi entrare come te stesso. Ormai appartieni interamente alla natura, al tempo: l’identità era un gioco”. Lucas si fa del male e tenta il suicidio. Sopravvissuto, decide di non parlare più, di sprofondare nel buio del silenzio, fino a quando una nuova tenerezza, anzi di più, un desiderio cocente e imprevisto, non strumentale ma carnale e libero, riesce appunto a liberarlo dalla depressione e dall’ossessione della morte. Perché il sesso, e quello più selvatico e anarchico, è una delle espressioni a cui Honoré più ci ha abituati. L’amore e il sesso salvano, sembra dirci. Complicano la vita, sicuro, ma la loro forza sta nel disporci verso l’apertura all’evento e nel consentire di farci fare esperienza dell’abbandono (all’altro e all’altrove), che è il contrario dell’abbandonarsi alla tristezza, che pure è parte della condizione umana ma che, se dilagante o peggio corteggiata, potrebbe fagocitare il resto dell’esperienza. La sensualità e l’affettività aprono a una prospettiva ‘giusta’, cioè non dicotomica, non nevrotica, in cui la felicità è un’esperienza e non solo una proiezione, un’idea -una identificazione a una identità proiettata da altri, fosse anche quella di un padre molto amato: basta così. E anche qui viene in mente una affinità con un altro film, rivisto da poco (grazie al TFF), Le notti selvagge (Les nuits fauves), fulgido e unico film di Cyril Collard, morto nel 1993, anche lui per Aids, poche settimane prima dell’uscita del film.  La scena finale, istantanea in flagrante su una persona che sta morendo, vede lo stesso Collard, dopo aver appena detto alla sua ragazza je t’aime, guardare verso il mare. Nel mezzo l’esperienza continua della perdita e della riaffermazione dell’identità (comunque motrice tirannica), del dire io voglio e poi del ricercare il suo opposto, cioè l’umiliazione, della tenerezza e del sesso più selvaggio, dell’egoismo, frainteso con la libertà, e della dipendenza, fraintesa con l’altruismo.

Ma quello che rimane non è la dialettica (spesso triste) degli opposti, la lotta per paura o per affermazione, piuttosto a persistere sono le tante tracce magnifiche di vite e corpi, quasi intensità sonore -a tratti un pianissimo a tratti solo rumore- riprese poco prima di diventare conchiglie ai bordi del mare. 

“Siamo solo conchiglie

Sparse sulla sabbia

Niente potrà tornare

A quando il mare era calmo”

(da Conchiglie di Laszlo De Simone)

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