Da Berlino – Sergei e Pavel, due scienziati russi, devono convivere, il tempo di un’estate, in una stazione polare situata su un’isola sperduta nell’oceano Artico. Questa è la situazione di partenza di How I ended this summer di Alexei Popogrebski, film doppiamente premiato alla Berlinale per la migliore interpretazione maschile, attribuita ex-aequo ai due protagonisti, e per la migliore fotografia.

Thriller psicologico e racconto iniziatico, dramma esistenziale e documentario sulla natura, How I ended this summer è un’opera complessa costruita con rigore, chiarezza di intenzioni e grande perizia. L’ispirazione del film risale ad una lettura che il regista aveva fatto durante la sua adolescenza: il diario di N.V. Pinegins, membro nel 1912 di una tragica spedizione al polo nord. Gli eventi narrati da Pinegins non hanno mai smesso di fascinarlo e di interpellarlo: in che modo un ambiente naturale così insolito ed estremo come quello dell’Artide può influenzare la psiche ed il comportamento umano? How I ended this summer esplora queste aree oscure dell’anima umana.

Popogrebski riesce ad instaurare un clima di tensione già dalle prime scene senza ricorrere a nessun elemento spettacolare attraverso un’osservazione fine e precisa dell’atteggiamento dei due personaggi e della loro relazione reciproca. Sergei, interpretato da Sergei Puskepalis, é un uomo sulla cinquantina, vive già da anni in questo luogo, ha molta esperienza e sa bene cosa bisogna fare e cosa no. É un uomo tranquillo a volte un po’ burbero e scontroso, ma in fin dei conti, nonostante il suo atteggiamento paternalistico, cerca solo di proteggere il suo giovane compagno. Pavel, interpretato da Grigory Dobrygin, è uno studente che viene dalla città giusto per passare l’estate nella stazione meteorologica. Il ragazzo vive la sua missione come una specie di vacanza, un’avventura da raccontare agli amici; non ha il senso della responsabilità e non é consapevole dei pericoli che l’ambiente circostante può nascondere. Di fatto si annoia, il tempo sembra non passare mai nella lunga estate boreale; ha sempre nelle orecchie due cuffie e ascolta musica tutto il giorno, gioca ai video-game e si dimentica di eseguire correttamente i suoi compiti. É costantemente eccitato ma anche molto insicuro e psichicamente labile.

Sergei e Pavel sono abbandonati a se stessi in una situazione di solitudine e di dipendenza reciproca. Un’ostilità palpabile ma volutamente sottile ed ambigua si stabilisce d’acchito fra i due personaggi. Il contrasto fra i due uomini che tutto oppone, il carattere, l’età, l’esperienza di vita non tarda a manifestarsi. Un giorno Pavel esce per andare a fare delle misurazioni e dimentica di caricare il fucile che si porta appresso: al ritorno, quando il suo superiore se ne rende conto, lo riprende duramente per questa svista che avrebbe potuto costargli la vita. Pavel inizia a sentirsi a disagio. Un altro giorno il ragazzo, che non si è svegliato a tempo per rilevare dei dati, scrive dei numeri a caso sul registro della stazione. Sergei se ne rende conto e gli dà uno schiaffo. Tutto ciò non è così grave, ma agli occhi di Pavel assume delle dimensioni sempre più minaccianti. La sua angoscia incipiente diventa ancora più forte quando Sergei gli racconta un episodio successo lì tanti anni prima: due scienziati, rimasti bloccati sul posto durante l’inverno, hanno finito per spararsi a vicenda, uno dei due è morto e le tracce del proiettile sono ancora visibili sul soffitto della baracca.

Il non detto definisce la relazione fra i due uomini: i dialoghi sono brevi, asciutti, di circostanza, lo scambio verbale si limita per lo più a delle comunicazioni di servizio, a delle informazioni pratiche. Rari sono i momenti in cui la parola trasporta dei ricordi, degli affetti, delle emozioni. La comunicazione fra Sergei e Pavel è frammentaria, intermittente, disturbata come le onde radio che li collegano, di tanto in tanto, alla terra ferma e al mondo. D’un tratto la situazione precipita. Pavel riceve via radio un comunicato terribile: la moglie e il figlioletto di Sergei sono morti in un incidente stradale. Il ragazzo non ha il coraggio di dargli questa notizia, inizia così a tergiversare e a nascondere per giorni interi quanto è successo. Sergei dal canto suo, ignaro dei fatti, è felice di ritornare presto dai suoi, fa progetti e intraprende delle lunghe partite di pesca per portare a sua moglie i pesci che tanto le piacciono. Poi un giorno, inevitabilmente, finisce per apprendere la brutta notizia e per capire che il suo compagno aveva continuato a tenerlo all’oscuro dei fatti.

A partire da questo punto il film si trasforma in una vero e proprio viaggio nel cuore della notte. Non è tanto il dolore e la disperazione di Sergei per la morte dei suoi ad essere al centro di questa storia quanto l’immaturità e il profondo disagio interiore di Pavel, il suo timore viscerale delle reazioni dell’altro misto alla pena di dovergli annunciare una notizia così devastante. Pavel é assolutamente incapace di affrontare la realtà con tutte le sue possibili conseguenze e crea così, senza un vero e proprio motivo estrinseco, un autentico dramma. Inizia un’assurda, perché immaginaria, caccia all’uomo. Pavel è convinto che Sergei voglia ucciderlo e nel suo delirio interiore, si sente continuamente braccato. In preda ai suoi rimorsi ed ad una paura ormai incontrollabile il ragazzo vaga per giorni e giorni, solo, affamato, sempre più derelitto e disperato per le lande desolate dell’isola. Si sente intrappolato e senza via d’uscita. Le condizioni meteorologiche non permettono alla nave rompighiaccio di approdare sull’isola ed un elicottero che avrebbe dovuto evacuare i due uomini si perde nella nebbia.

How I ended this summer è un odissea in uno spazio isolato, sterminato ed ostile dove la nozione di tempo perde il suo significato corrente aprendosi sulla dimensione incommensurabile dell’estate boreale. Le giornate infinite si estendono sul paesaggio cangiante ed imprevedibile, dilatano la percezione dell’ambiente circostante, acuiscono i sensi e finiscono per scombussolare completamente il fragile equilibrio psichico del ragazzo. Vacillante, ridotto ormai ad un masso di stracci sudici, Pavel si rifugia alla fine in un vecchio faro semi-distrutto. Sicuro, nella sua paranoia, di non avere più alcuno scampo, ricorre alla fine alla più disperata ed assurda delle azioni avvelenando il pesce di Sergei in un reattore atomico.

La tensione monta da una scena all’altra in un crescendo parossistico che ci tiene col fiato sospeso per culminare in un finale sorprendente. Popogrevki
costruisce la trama del film evitando soluzioni scontate e schivando abilmente le convenzioni del genere per andare ben oltre. Se in un psycho-thriller di stampo comune si tratta, in fin dei conti, di scoprire chi riuscirà a sopravvivere all’altro, How I ended this summer va in tutt’altra direzione.

La storia termina con un atto di riconciliazione e di perdono, una lezione di vera umanità, tappa decisiva nel cammino di un giovane uomo verso l’età adulta, la maturità e la responsabilità. Sergei ha avuto la forza di affrontare con pacatezza e grande forza interiore, nell’assoluta solitudine, il lutto che lo ha colpito. Pavel, disfatto e tremante, capisce infine di essersi sbagliato sulle intenzioni del suo compagno e chiede perdono per tutto il male che, per paura e vigliaccheria, ha causato all’altro ed ancora di più a se stesso. Il film si chiude con un’abbraccio.

Scabro ed essenziale, filmato con precisione e coerenza dall’inizio alla fine, How I ended this summer é stata, a mio avviso, una delle opere più interessanti di questa selezione. La messa in scena gioca su una dialettica fra piani medi e panoramiche trascrivendo – in questo mondo senza mezze misure – il contrasto costante fra un’intimità forzata e l’incommensurabilità dello spazio circostante. La cinepresa filma i rapporti fra i due personaggi con un leggero distacco senza mai frammentare i loro gesti. Stati emotivi e percezioni sensoriali si fondono in una rappresentazione fisica, quasi carnale: la pelle ruvida, i volti non rasati, i corpi nudi e sudati nella sauna, gli abiti sgualciti, il rumore della respirazione sono i tasselli palpabili di una cartografia dell’umano.

Una volta all’esterno l’individuo si riduce ad una piccola macchia in movimento nello scenario immenso della natura. Nell’atmosfera rarefatta dell’Artide affiora tutta una gamma di colori stupefacenti: il verde pallido dell’altopiano, le distese di ghiaia grigia in cui appare, come un miraggio pericoloso, il candore dell’orso polare, le rocce nere e vischiose sulla costa, il mare ora piatto e trasparente, ora livido e minacciante. L’estate boreale trascende i limiti del tempo, nella luce perpetua la durata dei giorni si dilata e sfuma creando una sensazione illusoria ed inquietante d’infinito. Questo legame, questa dipendenza dal tempo è presente nella fabbricazione stessa del film; è stato necessario sapere aspettare a lungo, accumulando più di ottanta ore di riprese in esterno, per cogliere l’epifania rara dell’orso bianco, per riuscire a captare nella natura quei fenomeni straordinari e fugaci che costituiscono l’universo visuale della pellicola.

How I ended this summer è stato girato, dalla prima all’ultima scena a Chukotka, la punta estrema al nord-est della Russia; Popogrevski e i suoi collaboratori hanno dovuto fare prova di molta tenacia, coraggio e resistenza fisica per affrontare le difficoltà di questo luogo. “Il solo modo per fare questo film” ha spiegato il regista “era di sottometterci completamente alla natura. Alla fine la realtà ha impregnato la nostra pelle e la pellicola.” Le immagini del film hanno a loro volta impregnato i nostri sensi: How I ended this summer persisterà certamente a lungo nella memoria di chi lo ha visto.

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