E’ probabile che per quando questa recensione sarà online il governo sia caduto. E’ chiaro che qualunque gradazione di sfiga noi porteremo ci sarà comunque poco da rallegrarsi. Alcuni processi di desensibilizzazione morale hanno compiuto il loro corso già da anni e la rispondenza binaria che regola l’andamento e i contenuti della maggior parte delle macchine del consenso a livello globale segue dinamiche spietate e universali che purtroppo vanno molto oltre il fiuto per gli affari o la sregolatezza del nostro Presidente del Consiglio.

Il programma televisivo seguitissimo in Cina Interviews without execution sulle interviste ai condannati a morte poco prima dell’esecuzione è, in questo senso, una conferma cruda e atroce. Il regista Robin Newell con il suo documentario Dead men talking, presentato nella sezione Extra al Festival di Roma, riesce a darne sicuramente una testimonianza intensa e molto controversa. In una sorta di dietro le quinte, che segue il linguaggio spettacolare del classico making of dei palinsesti televisivi statunitensi, veniamo a conoscenza di un format scioccante che degrada ancora di più la pratica umana istituzionale più incivile e animale.

Non sappiamo cosa si sogni ormai la notte, la conduttrice Din Yu comunque racconta alla telecamera dei suoi trecento incontri con persone ormai morte, presentando spezzoni di quelle che lei chiama “interviste” ma che praticamente sono solo dei processi aggiuntivi a delle persone che ormai non hanno nessuno strumento per elaborare un confronto normale. Personalmente, il momento in cui un condannato a morte chiede, alla fine della trasmissione, di stringere la mano proprio a Din Yu e questa gli porge con gestualità pretesca e disgustata solo l’indice, è stato il più terribile di tutto il Festival. La scena in cui tutta la famiglia di un’omicida è costretta a prostarsi e chiedere perdono a quella della vittima, invece, la più straziante e fa riflettere profondamente su come la forza di un reality abbia anche il potere di influenzare l’andamento ufficiale di un processo.

Newell purtroppo non contestualizza fuori dallo studio della presentatrice come questo format sia effettivamente recepito dalla popolazione cinese. Viene ripetuto più volte che Interviews without execution è una delle serie più viste in tv, ma non si chiarisce nemmeno come il programma stia influenzando l’opinione pubblica nel merito e sul senso stesso della pena di morte. Ci rendiamo conto che in Cina è incredibilmente complicato leggere e interpretare le forme di dissenso, ma impostando a sua volta tutta la struttura di Dead men talking come un programma tv e non lavorando su nessuna forma di critica sull’operato cinico, e senza scrupoli della redazione di Din Yu, è difficile dare un giudizio completo sul valore e la funzionalità del documentario. Ponendo gli accenti solo sulla spettacolarizzazione, Newell a volte ci suggerisce quella sensazione straniante che si prova sfogliando quelle riviste con le foto di operazioni impossibili o animali mostruosi. Il soggetto della sua produzione è decisamente forte, ma sembra che il regista si accontenti di aver trovato del materiale di suo già sufficientemente di effetto e non abbia nessuna intenzione di elaborarlo. La sensazione più sgradevole si ha quando sembra voler rafforzare la convinzione di Din Yu che il suo sia un programma didattico e che serva agli studenti per essere diligenti a scuola.

Fortunatamente nelle ultime settimane, per pudore, molti condannati si rifiutano di farsi intervistare. L’orientamento univoco e poco propenso al confronto si è riflesso nel fatto che questo è stato uno dei pochi documentari nella sezione Extra senza dibattito alla fine del film. Di sicuro è stato l’unico che abbiamo visto al Festival senza neanche un applauso nel finale.

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