Il cinema di Paolo Franchi ha un grande pregio. Ha l’ardire e l’ardore, di spingersi ben al di sotto dell’ombelico in cui troppo spesso si fermano i registi nostrani, in una trappola autoreferenziale che niente dà e niente aggiunge. Si spinge, il regista, in modi fin troppo esibiti (leggasi l’erezione di Elio Germano nel suo precedente film, e molto, troppo, altro) al limite del grottesco, e sicuramente troppo manieristici e compiacenti per non risultare perfino fastidiosi. Ma tant’è, lo accettiamo nostro malgrado, in cambio della possibilità di uscire dalle quattromura romano/milanesi di tanti nostri film, per seguirlo negli psichedelici labirinti della sofferenza umana, in un cinema che, ormai è un pregio, ha ben poco di “italiano”.

La sua formazione psicanalitica, dopo La spettatrice e Nessuna qualità agli eroi, trova nell’ultimo film E la chiamano estate, presentato in concorso alla settima edizione del Festival del cinema di Roma, la sua massima esplosione nella storia di Dino, anestesista quarantenne, dotato di quella pacatezza tranquillizzante e spaventosa, che solo chi porta una sofferenza inumana dentro possiede. Ha una splendida compagna accanto, l’Anna di una Isabella Ferrari qui più sensuale e “donna” che mai: non fanno l’amore, si abbracciano, si stringono, sentono di essere vicini come mai nessuno, ma non posso spingersi oltre. L’oltre, Dino è costretto a cercarlo altrove, nei locali per scambisti, nelle orge, nelle prostitute deturpate dalla vecchiaia e dalla disperazione; costretto da un mostro che lo divora, che gli fa sentire di non meritare quello che ha, in una compulsiva coazione a ripetere che lo travolge in amplessi gelidi e senza senso. È un uomo solo, nonostante gli uomini e le donne che si attorcigliano intorno al suo corpo, incapace di entrare in relazione con chiunque, meno che mai con colei che più volte dichiara di amare più di ogni altra cosa al mondo, perché, le  scrive, quello che hai di fronte non è altro che l’ombra di me stesso. Emblematica diventa una scena notturna, mentre Anna dorme e lui, alla finestra, guarda il mare, quel mare con cui il film si apre, e quel mare che inghiottirà alla fine la sua disperazione: Dino guarda oltre il vetro, e davanti si staglia improvvisamente l’immagine di Anna; lei gli sorride e lui tenta di toccarla, poggiando la sua mano sul vetro. È solo così che può riuscire a stabilire un contatto con lei, separato da quel vetro, dietro cui lui guarda tutta la sua vita come da dietro ad un acquario.

Il film scorre inesorabile e senza soste, il regista segue il protagonista nei suoi bagordi, nella sua solitudine, nella sua disperazione, nei suoi momenti di affettuosità e di distacco con Anna, che, anche quando scoprirà, dichiarerà di non essersi mai sentita più viva come con lui, e nemmeno un amante, ingenuo e puro, riuscirà a riscattarla. Il film scorre, dicevamo, descrive, non spiega. Fornisce qualche elemento, attraverso un espediente interessante: diapositive che inframmezzano la storia, e raccontano, come in un ideale e impossibile album dei ricordi, chi erano Dino e Anna prima di conoscersi, i loro compagni precedenti, la loro famiglia; parlano di un fratello suicida, di una madre scappata in Australia per il dolore, di un padre morto di Alzheimer dimentico di se stesso e da tutti dimenticato. Un modo per spiegare l’origine del  mostro del protagonista? Può darsi, Franchi non si spinge oltre, dissemina il campo di questi elementi, ma non pretende, e forse non gli interessa, di spiegare, né di creare un collegamento causale diretto. Utilizza invece una fotografia stilizzata, il bianco candore degli interni, la colonna sonora fatta di canzoni degli anni sessanta, di un mondo che nella nostra memoria è perfetto e ideale, per far risaltare il contrasto con il nero totale dell’animo dei protagonisti.  E’ un contrasto che stride, e che colpisce.

Quel che è certo è che chiunque, a suo modo, può annullare la sua disperazione solo chiudendo gli occhi, contando uno, due, tre… come ogni volta Dino fa fare ai suoi pazienti sul tavolo operatorio, l’oblio totale come unica via di fuga. Ma una vera via di fuga in realtà non c’è. Tutto avviene nel modo in cui ce lo siamo prefigurati, in maniera lenta ma inesorabile. Nessun cambio di programma. il regista non si lascia la possibilità di sorprendersi, e di sorprenderci. Non parliamo di un impossibile lieto fine, ma di rottura di schemi, qualcosa che spezzi il meccanismo e che devii il corso. Paolo Franchi rimane nei binari, e questo è forse il più grande limite di questo film. Con il rischio, proprio come quei vituperati film italiani, di non aggiungere nulla, e, per di più, di finire per annoiarci.

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