[***] – Anni Novanta. Veleno e Zazà sono due quindicenni della provincia tarantina, due ragazzi diversissimi, il primo figlio di una famiglia borghese, l’altro ragazzo della strada, con annesso fratello spacciatore, che diventano amici, di quell’amicizia di quell’età particolare nella quale, come ha sottolineato il regista durante la conferenza stampa, sei pronto a buttarti nel fuoco per l’altro. Zazà porta Veleno nella squadra di calcio dove gioca e finalmente, il ragazzo figlio dell’avvocato, avrà la possibilità anche lui di sbucciarsi i ginocchi e di mescolarsi a quella vita, fatta di fango e rabbia, nella quale desidera prepotentemente immergersi, liberandosi dalla campana di vetro nella quale fino ad allora ha vissuto; Zazà, anche grazie a Veleno, oltre che alla sua passione calcistica, capisce che c’è un altro modo di vivere rispetto alla strada e alla droga: Zazà e Veleno si completano.

A irrompere nel loro rapporto, a sconvolgerne gli equilibri e a darne nuova forma (e linfa) arriva la bellissima Annalisa, una giovane ragazza, la sposa infelice, che vola dall’alto di una Chiesa trascinata da un istinto desolato di morte. La figura di Annalisa sembra avvolta dal mistero, vive da sola in campagna in una casa semi abbandonata, Zazà e Veleno cominciano a prendersi cura di lei, giorno dopo giorno. La gente racconta che è così perché ha perso il suo amato, morto poco prima del loro matrimonio. I tre diventano indissolubili, legati da un rapporto ambiguo e affascinante. Un giorno, per difendere Annalisa dalle avance di uno spacciatore, Zazà accecato dalla rabbia lo accoltella. Finisce in galera e la speranza di un destino migliore sembra dissolversi; Annalisa, in preda ai sensi di colpa, sparisce e comincia a precipitare in quel baratro cui sembra fatalmente destinata. Veleno sembra rimanere solo, come all’inizio del film, ma qualcosa è cambiato e lui, “facendosi morbido morbido”, diventa un uomo.

Da Venezia a Roma, da Pinuccio Lovero a Veleno, Zazà e Annalisa, Pippo Mezzapesa conserva la capacità di inseguire territori, cose e persone con uno sguardo di un’ingenuità primitiva che colpisce, perché capace di trasfigurare la realtà in mito, la grettezza in lirismo, con un sapiente utilizzo della macchina da presa, che passa da campi lunghi e lunghissimi, quasi epici, a primissimi piani, fatti di dettagli densi di significato, come il ginocchio sbucciato di Veleno o la mano timorosa di Zazà che si posa sul seno di Annalisa, perché svelano il pensiero e l’anima dei personaggi. Tutto sembra già visto, ma allo stesso tempo tutto sembra disvelarsi agli occhi dello spettatore per la prima volta. In questo il film è di una sincerità disarmante. Mezzapesa non dice tutto, non scioglie tutti i dubbi, non illumina tutte le ombre: c’è molto non detto in questo film, tanti insoluti, perchè non è necessario farlo, bastano le emozioni e gli sguardi a dare corpo e struttura di senso.

La storia de Il paese delle spose infelici è la storia del passaggio dalla pubertà all’adolescenza, dai sogni alla vita vera. Per raccontarla, il regista sceglie la linea del contrasto: nel rapporto tra il mondo dei ragazzini e quello degli adulti, nella relazione tra Zazà e Veleno, tra i due ragazzi e Annalisa, nella sospensione tra la speranza e la disillusione, nella scelta del territorio, campo e controcampo naturale, che amplifica e sottolinea questi contrasti, in bilico tra bellezza arcaica e la deturpazione industriale. Ma soprattutto il film, tratto dal romanzo di Mario Desiati, parla di un’epoca in cui ancora la nostra vita si svolgeva in mezzo agli altri, alla ricerca del gruppo, di sguardi negli occhi, di mani che si intrecciano, fuori da quelle stanze fatte di solitudini dove l’esistenza è vissuta attraverso lo schermo dell’iphone; quell’epoca che era ieri, ma che sembra un milione d’anni fa.

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