Sull’onda dello straordinario successo riportato agli ultimi David di Donatello, dove ha ottenuto 8 nomination e vinto 4 statuette – per la produzione, il montaggio, gli effetti visivi ed il significativo David Giovani – torna in sala 20 sigarette, l’opera prima di Aureliano Amadei, già vero e proprio caso della Mostra di Venezia 2010, dove si impose con ben 7 premi, tra cui quello di Controcampo italiano. Con l’occasione ripubblichiamo la recensione del film

[**] – Aureliano Amadei è uno dei sopravvissuti a quella che è passata alla storia come la strage di Nassiriya, cioè il primo e più grave attentato subito dai militari italiani in Iraq dopo la fine della seconda guerra del Golfo. Non si trovava in Iraq come soldato, nemmeno aveva mai fatto il servizio di leva, lui anarchico e antimilitarista, era lì per collaborare come aiuto regista a un documentario sulla “missione di pace” del contingente italiano. Morirono in 28, 19 italiani, tra cui l’amico che l’avevo voluto lì, il regista Stefano Rolla. Era il 12 novembre 2003.

Un po’ di tempo dopo, guarite in parte le ferite materiali e psicologiche, Amadei ha scritto un libro su quella esperienza, 12 sigarette a Nassiriya. Ora da quel libro ne ha ricavato un film, 12 sigarette. Raccontato in forma di diario, il film inizia dalla fine, cioè dall’oggi, per andare a ritroso e concentrarsi poi sull’attentato e sui giorni immediatamente a ridosso. La voce over del protagonista-narratore ci guida nel viaggio allucinante e brevissimo (il tempo di un pacchetto di sigarette) di un ragazzo qualunque che si ritrova da un giorno all’altro catapultato all’inferno.

Narrativamente il film è diviso in tre parti. La prima è ambientata a Roma, prima della partenza e ha un tono leggero: ci viene presentato il protagonista, che bazzica gli ambienti dell’ultrasinistra romana, organizza presidi e manifestazioni contro l’intervento militare in Iraq e intrattiene una vita tutto sommato spensierata. La guerra, il deserto iracheno e la morte sono entità presenti a livello di pensiero, di parola, ma lontanissime in quanto vissuto. L’ultima parte è dedicata al dopo-attentato, alla lunga degenza in ospedale, alle polemiche politiche che seguirono, le strumentalizzazioni e così via, e infine alla lenta ripresa di Amadei. Tutto il tronco centrale è riservato all’attentato, ed è certamente il nucleo essenziale della pellicola. Amadei sceglie di raccontarlo praticamente in tempo reale, facendo appello alla sua dolorosa memoria per ricostruirlo minuziosamente, attimo per attimo. Macchina a spalla iperdinamica, ripresa in soggettiva, montaggio (ottimo) rapidissimo, sono le soluzioni scelte dal regista per trasferire sullo schermo la sua esperienza. Lo spettatore è calato così improvvisamente nel mezzo del conflitto, si ritrova a respirarne l’odore, a doversi difendere, quasi, dal fuoco nemico come i soldati sullo schermo. Assumendo il punto di vista del protagonista, il nostro occhio è costretto a stare sempre addosso alla guerra, gli si impediscono vie di fuga. E nulla gli viene risparmiato: paura, sangue, mutilazioni, cadaveri a distanza ravvicinatissima.

Mostrare tutto è certamente l’ansia e l’urgenza – di più: la motivazione profonda – che stanno dietro a 20 sigarette. Lo conferma indirettamente lo stesso Amadei quando, intervenendo prima della proiezione del film in un cinema napoletano, ripete con forza che quanto si vede sullo schermo “è tutto vero”. Ha voluto metterci davanti all’orrore reale, concreto, fisico della sua esperienza per intero, senza i tagli e le manipolazioni che la censura militare e quella dell’informazione televisiva benpensante e servile sono solite esercitare. Nessuna retorica sull’eroismo, la guerra è una storia sporca e insensata quanto un pacchetto di sigarette.
Questo spirito sta sicuramente premiando il film, accolto assai bene nella sua giovane vita in sala e soprattutto gli ha fatto gioco sulla ribalta festivaliera di Venezia, dove ha vinto la sezione Controcampo Italiano e riscosso minuti di applausi scroscianti.

L’impressione di chi scrive però è che l’esigenza “privata” di Amadei, rispettabilissima, quella cioè di elaborare una tragedia personale attraverso il racconto per immagini, non possa da sola dirsi un film compiuto. Ne è sufficiente che ad essa si aggiunga la volontà, altrettanto legittima e anche meritoria, di tipo politico, di informare in maniera finalmente corretta su degli eventi ampiamente mistificati dai media nostrani. In 20 sigarette arranca un po’ il cinema, verrebbe da dire.
Proprio a Venezia, l’anno scorso, a vincere il Leone d’Oro fu Lebanon, straordinario film incentrato su un episodio della guerra del Libano, anch’esso realizzato da un testimone diretto dei fatti, il reduce israeliano Samuel Maoz. Curiosamente anche Lebanon, come 20 sigarette, trovava il suo centro d’interesse nelle modalità di mostrazione del conflitto. Pure lì infatti la guerra era vista tutta in soggettiva, e per di più attraverso un ulteriore “filtro” bellico: il mirino del cannone di un carro armato. Il mondo esterno esisteva solo in quanto spazio guerreggiabile, in una perfetta, radicale coincidenza tra Realtà e Conflitto. La pancia del mezzo corazzato, in cui si svolgeva l’intera azione, diveniva un set sul quale i soldati, letteralmente privati dell’orizzonte (la guerra come unico sguardo possibile!), si dimenavano in un dialogare assurdo che era mero significante di follia… E così via.
Ecco, a 20 sigarette manca la forza per costruire attorno al suo assillo di mostrare una poetica compiuta; per fare cioè delle soluzioni tecniche che adotta – certamente non inedite – delle scelte espressive che significhino, attraverso lo schermo, un senso ulteriore. Non gli giova in questo la sceneggiatura, che anche nella prima e terza parte si limita programmaticamente a illustrare invece che approfondire le psicologie, finendo per generare personaggi poco più che folcloristici, come gli amici del centro sociale, o addirittura puramente “decorativi” come quello interpretato da Carolina Crescentini. Dentro un discorso poetico ed estetico così debole, l’ansia di far vedere, di sfidare lo spettatore sul terreno (quasi horror) del non distogliere lo sguardo, rischia seriamente di farsi pornografia dello sguardo.
Tuttavia rimangono, e non è poco, le intenzioni del film, di cui s’è detto, e che ci permettono di affermare, insieme al presidente Napolitano, che il lavoro di Aureliano Amadei, lontano anni luce dalla logica dell’embedding, è certamente un esempio di “alta moralità”.

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