“Il vento fa il suo giro” ma non sembra passare nelle teste dei distributori italiani. Non è la prima volta e su questa rivista abbiamo già avuto modo di mettere in evidenza altri casi di cecità del sistema cinema del nostro paese. Il film di Giorgio Ditti esce questa settimana nelle sale in un “circuito” non ufficiale. È a Roma all’Azzurro Scipioni, a Milano al Mexico, a Torino al Fratelli Marx, a Bologna al Lumiere e poi a Lecce, Firenze, Napoli e Treviso.  Pronto dal 2005 non ha trovato una distribuzione se non fosse stato per il passaparola e l’aiuto di Cineteca di Bologna, Film Commision Torino Piemontese, e dell’associazione Cinecircoli Giovanili Socioculturali che l’hanno “adottato”, e gli stessi realizzatori del film, divenuti co-produttori. Il lettore scafato potrebbe pensare che si tratti di un’opera di scarso interesse che non trova riscontro nel pubblico, e invece non è così. Proiettato al London Film Festival ha riscosso successo, ugualmente al Bergamo Film Meeting e in decine di altri festival in Europa e nel mondo.  Girato con un budget  – escluso il gonfiaggio in 35mm per le copie, nonché il lavoro gratuito dei tecnici – di 380mila euro, e senza finanziamenti statali, Il vento fa il suo giro ha la purezza degli indipendenti e ritrae la cultura contadina mettendo da parte l’abituale retorica sul tema. Interpretato dall’intera popolazione di una vallata del nord piemontese, insieme a pochi attori professionisti, racconta dell’arrivo dalla Francia in un piccolo paese di montagna di un giovane uomo con moglie e figli. Vorrebbe soltanto lavorare, fabbricare formaggio e allevare capre, farsi accettare da una comunità che parla però una lingua diversa dalla sua. L’iniziale simpatia si trasforma presto però in ostilità. I contadini, di questa valle del cuneese, sono una minoranza etnico linguistica, parlano l’occitano. Insomma vengono messe in mostra le frizioni tra globale e locale di cui tanto si discute.  “Mi piace pensare – dice l’autore Giorgio Ditti – che nella semplicità di questa storia e delle persone vere che l’hanno resa possibile, ci siano valori universali che si rendono comprensibili ben al di là delle lingue che parlano dall’occitano all’italiano al francese. Mi piace pensare che la solitudine e la voglia di condivisione che ho cercato di raccontare suonino familiari al pubblico italiano così come lo sono state per quello inglese, americano, tedesco, insomma tutti i posti in cui il film è stato apprezzato e scoperto. La nostra battaglia per renderlo visibile anche in Italia nonostante cortesi o distratti o colpevoli rifiuti di distribuzione e istituzioni, è quella di chi pensa che si può far cinema in un altro modo, che si può trovare il proprio pubblico senza subire le leggi da supermercato del sistema cinematografico oggi di moda”.  Intanto Ditti è al lavoro su altro progetto. Sta scrivendo una sceneggiatura sulla strage di Marzabotto. Il 29 settembre del 1944 i nazisti in ritirata trucidarono centinaia di civili, tra cui 316 donne, 142 anziani di oltre 60 anni e 261 bambini. “Voglio riflettere sul nostro passato – dice il regista – perché non si perda la memoria storica. Speriamo che per il cinema e tv non sia un’impresa troppo ambiziosa”.

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