Si può benissimo decidere di avere dei figli solo perchè si ha una fiducia totale nel genere umano. Nel suo ultimo libro però Tiziano Scarpa ci ha anche avvicinato alla prospettiva opposta, tenendo conto della posizione di chi non è assolutamente soddisfatto dai propri simili e mette al mondo nuova umanità, sperando che la propria genia possa – al contrario – preservare e diffondere valori o principi sempre meno diffusi. Diciamo che in un caso o nell’altro la visione del nuovo film della Bier potrebbe non essere di grande aiuto alle nuove coppie di futuri genitori. Anzi, In un mondo migliore –  candidato ufficiale della Danimarca al premio Oscar, accolto trionfalmente al Festival di Toronto e premiato al Festival di Roma da giuria e pubblico – potrebbe benissimo cancellare di colpo ore e ore di studio del metodo Montessori o interi cataloghi di puericultura di Asha Phillips.

Con lo stesso incedere deciso di Dopo il Matrimonio e Non desiderare la donna d’altri (da cui è stato tratto il remake Hollywoodiano Brothers di Jim Sheridan) la regista cinquantenne danese si confronta con le dinamiche familiari in un universo sociale apparentemente indifettibile, lavorando sull’idea che la consapevolezza di essere nel giusto non sempre può garantire la sicurezza di scelte educative efficaci. L’ottimo Mikael Persbrandt è Anton, chirurgo continuamente impegnato nelle missioni umanitarie di Medici senza frontiere in Africa e convinto, una volta a casa, a incoraggiare sempre il piccolo figlio Elias a porgere l’altra guancia ai bulli della scuola, quasi solo per inerzia e una sorta di immedesimazione ottusa nella forma, apparentemente placida ed evoluta, dei rapporti sociali che regolano le relazioni nella ricca periferia danese. Il problema è che chiunque è uscito vivo dalle ricreazioni di terza media sa che c’è un solo modo per cavarsela indenni dai bulli della scuola e certo non facendo la spia alla professoressa.

La Bier lavora perfettamente, e con puntualità emozionale implacabile, sulla lontananza che separa spesso i genitori dai figli, specie quando in certe situazioni ricorrono distrattamente alle solite frasi di circostanza per risolvere problemi che per gli adulti sono sciocchezze, ma che per i bambini sono questioni di vita o di morte. In questo senso, la scelta di Ulrich Thomsen, l’eroe di Le mele di Adamo e Festen, qui nelle vesti goffe e incerte di Claus, rappresenta quasi platealmente l’inadeguatezza congenita con cui si devono confrontare oggi tutti i genitori, anche nei contesti più agevoli: il suv, il porticciolo con il molo di legno e la pista ciclabile fino a dentro casa.

Una volta resettate definitivamente alcune polemiche riemerse anche nel corso di questo Festival di Roma su l’Islam o il Darfur, che comunque hanno preso a pretesto alcuni temi neanche lontanamente sfiorati nel film, In un Mondo Migliore rimane una riflessione esemplare sulla questione irrisolta se la nostra società avanzata sia davvero un modello esemplare e in grado di tenere sempre sotto controllo le esplosioni di violenza. L’intreccio e i gradi di separazione abissali tra i momenti di regia che riprendono i bambini da soli, insieme ai grandi o spersi tra le nuvole della savana, ci restituiscono una grande autrice, che se non pronta a vincere l’Oscar, quantomeno degna di affermarsi come una delle pretendenti più autorevoli al Marco Aurelio di questa edizione.

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