Giunto provvidenzialmente dal Sundance Festival 2010 e passato fuori concorso per il claudicante Festival del Cinema di Roma, Animal kingdom da questa settimana è nelle sale cinematografiche italiane. Se non l’avete capito questo è un suggerimento. Tra le scialbe commedie di casa nostra e i fuochi d’artificio del divertissement americano un’alternativa c’è e la offre un giovane australiano, ex giornalista che con le sue inchieste ha raccontato il torbido universo criminale di Melbourne. La convincente pellicola australiana narra la vicenda di una famiglia di rapinatori coinvolta in una guerra metropolitana senza esclusione di colpi contro la polizia locale. Il personaggio che ci trascina dentro la storia è J. La sua voce fuori campo ci guida dentro un universo infernale, sordido e senza scampo dove il bene e il male sono concetti che si dissolvono uno dentro l’altro.

L’incipit, nella sua eloquenza raggelante, è già rilevatore di uno straniamento emotivo che pervade tutti i personaggi principali del film. Su un divano giace la madre di J. Un’overdose l’ha appena ammazzata. Lui le è seduto affianco ma sembra distratto da un gioco a premi che stanno dando in tv. Nemmeno un lieve segno di turbamento lo scuote. Telefona alla nonna che non vede da tanti anni e si trasferisce da lei. Da qui inizia un viaggio che lo trascinerà inesorabilmente dentro una fitta tela di intrighi, tradimenti e legami morbosi, all’interno della quale le regole sono quelle del regno animale. Cane mangia cane, per usare un titolo bunkeriano. Il più forte sopprime il più debole. La legge è inesistente dentro questo microcosmo delinquenziale dove nessuno appare totalmente affidabile. La violenza è ben presente nel film di David Michod ma il regista si guarda bene dal farne un’elemento di estetizzazione. Gli omicidi sono filmati con mano gelida, esplodono improvvisi, inaspettati come mine disseminate su un sentiero infido.

Non è l’azione il motore del film ma i personaggi, accuratamente rappresentati nella loro ambiguità morale e nei tratti psicopatologici. I tre fratelli, abilmente manipolati dalla diabolica mamma “smurf” (una magistrale interpretazione di Jacki Weawer) rimandano ai fratelli Tempio di Abel Ferrara in The Funeral, ma Animal Kingdom prende altre strade, decisamente lontane dalle indagini innescate dal regista newyorkese sulle radici etnico-religiose dell’etica criminale. Il mondo raccontato da Michod ha perduto irreversibilmente ogni riferimento morale. E lo capisce bene il giovane protagonista, stretto dentro un asfissiante e oscuro ingranaggio, reso sapientemente da una regia pronta a enfatizzare ogni aspetto torbido delle situazioni in gioco, per mezzo di un’andatura della macchina da presa incerta e spasmodica. Difficile ascrivere questo lavoro dentro le categorie predefinite di un genere. Ci sono tutti gli ingredienti per definirlo un gangster’s movie, ma con un alto livello di autorialità e conoscenza del linguaggio cinematografico. Tra le cose più interessanti passate al Festival di Roma 2010.

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