Il paesaggio, nel cinema di Jane Campion, ha sempre rappresentato apertura, mistero, l’ignoto dell’Eros, la strada buia dove si accendono i fari della macchina all’inizio di Mullholland Drive ( e David Lynch può essere considerato un fratello urbano e più nevrotico della regista neozelandese). Spesso questo aspetto cosi potente e viscerale è stato indissolubilmente legato alla donna e alla scoperta di sé , nelle immagini e nel racconto, come per Ada MaCGraw, la protagonista muta per scelta di Lezioni di piano che per scelta si lega alla fune con la quale affonda nell’oceano assieme al suo pianoforte, salvo poi spezzare quel legame trasformatosi da canale espressivo, un surrogato della voce interdetta, in oppressiva e tenace resistenza alla vita; o in forma ancora più esplicita, per la Ruth di Holy Smoke che nuda, nel corpo gloriosamente carnale di Kate Winslet, urina davanti al fuoco e in mezzo al deserto , sotto gli occhi dell’ “esperto” parapsicologo chiamato  per liberarla dal plagio di un santone indiano.

Gli oceani, i deserti,  Ada, Ruth , Kate, Holly (la Hunter , altra fisicità non conforme, protagonista di Lezioni di piano) si susseguono come impulsi nel momento in cui comincia questo Il potere del cane, suo ritorno come regista di cinema a 12 anni dallo struggente e intimo Bright star , in cui intreccia sapientemente il racconto della breve e appassionata esistenza del poeta John Keats con la rappresentazione del suo processo creativo , in particolare nel  sonetto che da il titolo al film,  composto per cristallizzare in perpetuo l’amore rimasto incompiuto, a causa della sua prematura morte, verso l’incantevole Fanny Brawne.

E in effetti il paesaggio c’è, fin da subito: i monti e le valli di un ranch  nel Montana degli anni venti del secolo scorso, come vuole il romanzo dello scrittore statunitense Thomas Savage da cui è tratto, anche se tutto è avvolto da un effetto straniante e  fuori da (qualsiasi) tempo , un sentimento più forte anche della elementare indicazione data dagli abiti e dall’ambientazione. E, soprattutto , dal punto di vista visivo ,  entriamo dalla porta principale di questo mondo , non tramite un personaggio di donna non omologata  (la voce che sentite non è la mia voce, esordiva Ada MacGraw) , ma con l’andatura sicura e decisa di Phil Burbank apparentemente cosi a proprio agio nelle sue illuridite vesti di  cowboy corazzato e volutamente sgradevole, che stigmatizza immediatamente il fratello George ,fisicamente meno prestante e con un probabile deficit intellettivo. Ma  si tratta appunto  di un’apparente dinamica di forza che invece, proprio come accadeva nei precedenti film della Campion, viene ribaltata in una susseguirsi di manipolazioni e contro-manipolazioni, di vittime e carnefici , di desideri repressi esplosi oppure sublimati, in una messa in scena che si è fatta ancora più misurata, precisa, insinuante; l’autrice racconta in fondo , in maniera indiretta o per meglio dire meta-cinematografica , anche la trasformazione del suo sguardo che ha in parte reso più mansueto quel furore giovanile , calato anche dentro le sue impetuose eroine irregolari, per aprirsi a una lucidità e a una profondità di analisi di cui quel  Ritratto di signora del 1997, altro adattamento cinematografico dal ben più celebrato e stratificato romanzo di Henry James, era stata  la scalpitante, un po’ inamidata e ancora non pienamente riuscita prova generale. Di incandescente materiale melò ne Il potere del cane d’altronde, ce n’è : il conflitto tra i due fratelli verrà infatti inasprito dall’entrata in scena di una giovane e già sfiorita vedova Rose e soprattutto di suo figlio Peter, nato dal primo matrimonio, di cui , a proposito di voci off, ci ricorderemo poi alla fine di aver ascoltato una dichiarazione di assoluta e implacabile dedizione amorosa verso la madre nell’incipit del film , in contrapposizione alle immagini cosi ostili e violente di quel mondo  di mandriani.

Peter ha un aspetto, una sensibilità e un modo di essere  che oggi definiremmo fluidi, oscillanti con grazia e spontaneità  tra il maschile e il femminile, come mettere insieme la delicatezza dei i fiori di carta che meticolosamente ricostruisce e le capacità al tempo stesso di uccidere un animale e dissezionarlo senza guanti; un ‘espressione della propria identità sessuale verso la quale esistono fortissime resistenze ancora oggi, e che in una società arretrata come quella della profonda America rurale degli inizi del secolo scorso poteva essere percepita solo come uno scherzo  o un comportamento da correggere. Cosi quando George sposa, più per un’infantile senso di solitudine che per autentica passione,  Rose, Phil, in realtà morbosamente attaccato al fratello che dileggia volendo rimanere fedele al suo rude personaggio archetipico del west, per gelosia decide prima di provocare la fraglie moglie sull’orlo di una crisi di nervi ( e con un precedente marito morto suicida) fino all’esasperazione e all’alcolismo ; poi prende Peter sotto la sua ala protettiva, con l’intento di farne un maschio “vero”  appunto , di piegarlo al clichè del mito dell’uomo della frontiera, con il costante richiamo alla figura di un fantomatico Bronco Henry, un cowboy vecchio stampo che a sua volta gliene aveva tramando la tradizione e impresso il condizionamento.  

Ed è dopo aver costruito questa architettura di dinamiche e collisioni /collusioni, con George che si rivela in tutta la sua debolezza e viltà nel voler unicamente  compiacere i ricchi genitori o il sindaco della contea senza accorgersi del disagio e della solitudine di Rose, che la Campion ritorna a servirsi della forza primigenia del paesaggio,  questa volta non tanto per trasformare e rigenerare , quanto per spiazzare e demistificare direzioni e percezioni . Phil , un Benedict Cumberbatch, svestito, in tutti i sensi, della sua aria da rassicurante intrattenitore per tutti i gusti e tutte le stagioni e pronto a esporsi fino in fondo come corpo del disagio, filmato più volte nel suo solitario e totalizzante rapporto con i boschi , i laghi e la terra fangosa, ne sembra essere completamente padrone e conoscerne i segreti e il mistero , come la minaccia contenuta all’interno delle montagne che si stagliano sopra il suo ranch; una minaccia che lo provoca e ne alimenta lo spirito oppositivo , l’identificazione con le sue pulsioni e al tempo stesso la controfobia che le reprime. Il contro campo silenzioso e implacabile di quel complesso roccioso, che ritorna continuamente nella fissità vertiginosa dell’inquadratura e a cui lo stesso Peter , interrogato da Phil su cosa possa ricordare, attribuisce la forma di un cane con la bocca spalancata, in procinto di divorare qualcosa o qualcuno,  evoca una dimensione più profonda: non è certo il panorama passivamente ammirato o contemplato , ma è altro anche rispetto alla materia viva e vibrante in coesione con il femminile selvaggio e mai completamente penetrabile delle opere precedenti. È inconscio , demone, fantasma , loop di un maschile avvitato su stesso eppure cosi semplice da smontare , in quanto basta che Peter chieda a Phil se  durante le escursioni montanare con il suo mentore Bronco Henry dormissero nudi, per far emergere la latente tensione sessuale che è il vero motore scatenante dell’avvicinamento tra lo spavaldo ranchero e l’efebico fanciullo. Tra l’altro con un rimando non voluto al celebrato western in milieu omosessuale I segreti di Brockeback Mountain , collegamento che rende l’allusione di Peter ancora più sibillina.

E il momento in cui sempre Peter accende una sigaretta e poi la fa aspirare tenendola tra le proprie mani a un turbato Phil , richiama quel campionario sublime di romanticismo gay che è Un chant d’amour di Jean Genet, dove i carcerati esprimevano il proprio desiderio, letteralmente e fisicamente represso dal luogo/istituzione prigione,  soffiandosi il fumo dentro la fessura, simbolo di un’analità agognata e aspirata, della porta tra una cella e l’altra. La Campion rimane invece sempre sul filo dell’allusione e della potenziale esplosione e amplifica l’oppressione di quella gabbia a cielo aperto dove tutto è al contempo intrappolato e disperso come in una nuvola di fumo appunto, costretto nel perimetro slabbrato di un forma che rischia (volutamente?) di diventare formalismo, continuando a fare i conti con i propri occhi spalancati da una costante intuizione visionaria e intorpiditi dal limite di un ‘orizzonte Netflix (che produce e distribuisce il film) , del quale la scapigliata autrice neozelandese cerca di spostare il limite estetico, il condizionamento di uno schermo più piccolo e più addomesticato.

Perchè con tutti gli ulteriori passaggi e le possibili svolte fino alla composizione dell’ultima inquadratura ( da non svelare e guardare con attenzione, che suggella un poetica del contro senso e della decostruzione), Il potere del cane è materia viva nel corpus del personalissimo immaginario di questa “non signora” del cinema dell’altro mondo ,Jane l’oscura , come una versione femminile del Jude protagonista di Thomas Hardy , colei che è stata capace di guardare dentro l’abisso prima delle donne e ora degli uomini, refrattaria a qualsiasi visione rassicurante e consolatoria; lei che ci porta sempre, come il Cristo pasoliniano forgiato nel sangue e nella rivoluzione, in una terra scabra e desolata, ma non ci abbandona mai: in quel nulla il suo sguardo ha sempre la forza di produrre un senso nuovo.

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