Sinossi (dal sito dell’Archivio Luce): Cipria è un film di fantasmi: tre donne italiane vissute durante il fascismo avevano raccontato le loro vite sperando potessero diventare un film, ma la guerra aveva spezzato il sogno. Di loro non avevamo nemmeno un’immagine: solo i racconti, ancora attuali, delle loro esistenze, che aspettavano da ottanta anni di essere visti ed ascoltati. La sfida è stata quella di visualizzare le loro storie con materiale di repertorio girato tra gli anni venti e gli anni quaranta e nuove riprese, per ridare un volto, una voce e un corpo ad ognuna di loro.

Se è vero che un film d’archivio, ovvero un film composto e montato con immagini d’archivio, in quanto immagine di una immagine è anche sempre immagine riflessa di un tempo passato (e del tempo tout court) ed insieme è forma di attenzione riflessa, cioè di autocoscienza, da parte dello stesso spettatore, che proprio dallo scarto di uno sguardo in continua formazione –che è quello dello stesso regista, ingaggiato in un dinamismo dialettico con le stesse immagini d’archivio, ovvero con lo sguardo di chi ha effettuato quelle riprese o fotografie- può trarre stimolo per la costituzione del proprio stesso vedere (e immaginare e pensare), allora il film di Giovanni Piperno, tratto da un soggetto della storica dell’arte e sceneggiatrice Anna Villari, anche coautrice, può dirsi a maggior ragione un’opera riuscita. Con Cipria, infatti, il regista romano Giovanni Piperno conferma di possedere una qualità abbastanza inconsueta nel cinema italiano: la capacità di dare identità al proprio sguardo. E in un film di passione civile, quale è anche questo, tale attitudine ci consente di non dover dirigere il nostro punto di vista soltanto sugli aspetti storico-sociologici, ma di poter finalmente sporgere l’attenzione sulla portata formale dell’opera filmica. E sulla mise en abyme, qui rappresentata.

In questo senso, ci interessa vedere come Maria –suo è il punto di vista dal quale è raccontata tutta la storia-, figlia unica di un contadino benestante, entri ben presto in un rapporto di ambivalenza con le prerogative cittadine. Lasciando la famiglia e la campagna e andando a lavorare in città, Maria entra nel campo per lei quasi ignoto della libertà e della possibilità, dell’autonomia e della scelta. Ma insieme a questo comincia a sperimentare anche la ripetitività del lavoro e la materialità alienante della riproduzione in serie (di merci e di tempo di vita). Lo stereotipo patriarcale che vuole la lavoratrice subordinata e sfruttata due volte. Il corpo e i gesti di una provenienza contadina scontrarsi con l’apparenza e il conformismo di un giudizio adulterato.

Ma in che modo questa storia viene raccontata? Il film d’archivio, come la poesia e le arti visive, è sicuramente in grado -e forse meglio del cinema di finzione e spesso anche dello stesso documentario- di generare una molteplicità di dimensioni con cui indagare e rapportarsi tanto alla verità di una esperienza quanto alla modalità di racconto e di costruzione della memoria rispetto a quella stessa esperienza. In questa prospettiva le immagini selezionate da Piperno e Villari -provenienti in via principale dall’Archivio Luce, dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, dall’Archivio Nazionale del film di Famiglia- scorrono davanti a noi schiudendoci ipotesi possibili rispetto al vissuto di Maria e di tante altre donne che nel ’41 si affacciavano alla modernità provando a cambiare la propria vita e insieme il corso della storia. Ma oltre il dato storico e memoriale, è sul piano formale che queste immagini si fanno tracce visibili di un progressivo avvicinamento: dalla penombra di una esclusione dalla vita activa alla costruzione della propria singolarità e presenza nella storia. Dall’umiliazione e negazione dei desideri all’affermazione della presa di parola nella scena pubblica (seppure ancora limitata nei confini di un ufficio) e della libertà di una soggettivazione che vuol rompere la catena della subalternità. Magnifica, in questo senso, la soggettiva di Maria mentre guida e parla del proprio lavoro, tra acquisizione di forza e sprezzature di insicurezza. La sequenza ci interroga molto più di una normale scena finzionale proprio per il margine di apertura e slittamento costituito dall’uso dell’immagine d’archivio (evidentemente la vera Maria non è quella ripresa nell’immagine che stiamo vedendo, eppure quello che vediamo –il riflesso di Maria? di tante altre? anche il nostro?- ci porta su un territorio percettivo di grande potenza narrativa, affettiva e fantasmatica) e dall’utilizzo della voce over, la voce che racconta la storia di Maria. Lungo quelle curve di una stradina che costeggia un lago del nord Italia intorno al 1941, attraverso lo sguardo di una donna che sembra Maria, vediamo l’espressione di un’immagine che sembra vera -verità di un’espressione e di uno sguardo all’opera.    

Questa non è l’unica epifania che vediamo scorrere in un montaggio pressoché perfetto.  

Evocativa, tra le altre, è l’idea di proiettare alcuni filmini d’archivio su delle porzioni di oggetti d’uso quotidiano, sorta di installazione di specchi tramite cui dislocare l’esperienza percettiva e attivare il processo della memoria.

O il mettere in tensione il dinamismo di donne non convenzionali –Maria, Donata e Zelferina-, donne che non ci pensano proprio ad adeguarsi passivamente a dei modelli assegnati, con la staticità pesante e ordinata dei macchinari industriali, la cui materia opaca finisce per sfumare anche dal nostro sguardo (la lunga scena iniziale, piano sequenza con cadenza da requiem verso il mondo industriale che fu).

O ancora il far raccontare la storia, in voce over, a una attrice brava e multiforme come Lucia Mascino –risuona ancora la nevrosi sofisticata con cui, in Smarrimento di Lucia Calamaro, interrogava la sua parte mancante…     

In tutti i modi possibili, insomma, questo magnifico e denso film di immagini e montaggio, ricostruzioni e racconti, è riuscito nel restituirci, con gesto politico e poetico, proprio quel pezzo mancante lì, luogo della memoria e della soggettività in divenire di tante vite ai margini.  

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