QUINZAINE DES RÉALISATEURS
A NIGHT OF KNOWING NOTHING di PAYAL KAPADIA

CONVERSAZIONE CON LA REGISTA

A Night of knowing nothing, opera prima di Payal Kapadia selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs, è l’esempio perfetto di quanto una forma ibrida che si nutre di materiali d’archivio, filmati documentari ripresi dalla regista e di una narrazione extradiegetica, portata dalla voce immaginaria di una ragazza in pena d’amore possa trasformarsi in un’opera dall’indubbio impatto politico, in una denuncia, in un film militante tout court.

L’universo che Payal Kapadia ha saputo creare nel suo lavoro ci seduce dai primi istanti trasportandoci in luoghi lontani e ben reali ma immersi, a tratti, in un’atmosfera onirica, quasi fiabesca. I ricordi della giovane protagonista si mischiano con brandelli di un passato più o meno recente, vecchie fotografie, filmati di feste e matrimoni di un altro tempo, avanzando verso un presente sempre più opprimente e violento, dove le voci dei giovani indiani, degli studenti e dei lavoratori si ergono coraggiose contro uno status quo sociale e politico che vuole farli tacere, ad ogni costo.

L’originalità del suo approccio visuale e narrativo e la sua capacità a trasmettere un forte messaggio politico attraverso un linguaggio intriso di poesia sono valsi alla giovane regista, originaria di Mumbai, l’ambito riconoscimento de L’œil d’Or, con cui viene premiato il migliore documentario presentato a Cannes sull’insieme delle sezioni del festival.

Qual è stato il punto di partenza di questo progetto così complesso?

A dire il vero l’origine di tutto questo progetto è molto semplice; nel 2015 Ranabir Das, il mio compagno, che ha peraltro lavorato sul film come direttore della fotografia, montatore e produttore, ed io frequentavamo la stessa scuola di cinema a Pune, la scuola nazionale di Cinema ( Film and Television Institute of India)   e lavoravamo già insieme su vari progetti.

Mentre studiavamo lì insieme, siamo stati testimoni dello sciopero degli studenti, era appena successo e dopo che era finito, non so esattamente cosa abbiamo provato, ma abbiamo avuto l’impulso di iniziare a riprendere i nostri amici anche dopo lo sciopero. Volevamo documentare qualsiasi cosa stesse accadendo nel campus e i nostri colleghi e non c’era niente di pianificato. Onestamente all’inizio era solo questo.

Il bianco e nero del vostro film è arrivato sul tavolo di montaggio o avevate già deciso di girarlo cosi?

No, abbiamo girato il film in bianco e nero fin dall’inizio.

Con che tipo di materiale avete effettuato le vostre riprese?

Beh, è un segreto, ma te lo dirò lo stesso! (ride) Volevamo creare un’ambiguità sul come fosse stato girato questo film. Volevamo dare la sensazione che si trattasse di un materiale 16mm come quello usato per quei vecchi documentari che si vedono spesso in India finanziati da un’istituzione per i documentari chiamata Films Division. D’altra parte avevamo visto anche una grande quantità di film del repertorio storico che avevamo a nostra disposizione nella nostra scuola di cinema.

Di fatto la scuola di cinema di Pune ospita un archivio cinematografico nazionale, il National Film Archive of India (NFAI), dove ci sono un sacco di vecchi film indiani ma anche dei film dell’URSS da Eisenstein a Pudovkin e tutta la New Wave Cecoslovacca. Potevamo vedere tutte queste copie in sito anche se spesso la pellicola era danneggiata creando degli strani effetti cromatici rossastri.

In ogni modo quest’esperienza ci ha lasciato una grande nostalgia per la pellicola ma, ovviamente, non avevamo i soldi necessari per potercela permettere, così abbiamo escogitato un metodo con la nostra telecamera che era digitale, per creare l’impressione che stessimo filmando in 16mm. Questo processo ci è costato molto tempo. Facevamo sempre dei test e provavamo diverse cose e diversi filtri per ottenere la qualità d’immagine che volevamo.

Anche se avete lavorato con una cinepresa digitale il risultato è sorprendente!

Sì, sicuramente! A dire il vero è addirittura migliore di quanto ci aspettassimo perché abbiamo collaborato con un color grader eccezionale a Parigi, Lionel Kopp, che lavora come un pittore! Ha capito perfettamente cosa volevamo fare e che tipo di immagine volevamo ottenere, così ha aggiunto un sacco di texture. Molte volte non si ha più una chiara memoria di quel tipo d’immagine, ma Lionel Kopp è qualcuno che l’ha interiorizzata perfettamente nel corso di anni ed anni di lavoro e quindi sapeva perfettamente quale doveva essere il contrasto, come doveva essere la luce, quanta luminosità doveva esserci nell’immagine. Questo processo era così naturale per lui che il suo sguardo ha davvero apportato questo tipo di coerenza attraverso l’immagine.

Come avete organizzato le riprese e quando avete deciso di usare anche del found footage?

Abbiamo continuato a girare. Avevamo molto materiale dalla scuola di cinema e molte altre cose che non abbiamo incluso nel film, e poi abbiamo ricevuto delle riprese fatte da alcuni nostri amici che avevano girato altre proteste in altre università.  Noi non c’eravamo stati perché non si può essere ovunque. L’India è un paese piuttosto grande e non potevamo filmare ovunque, ma loro sì. Abbiamo detto loro che stavamo facendo questo film. Non sapevamo bene come affrontare tutto quello che stava succedendo, perché c’erano un sacco di cose in corso dappertutto. I nostri amici hanno detto che avevano molti filmati e che se li volevamo potevamo averli. Quando abbiamo dato un’occhiata a queste riprese abbiamo iniziato a pensare che se potevamo documentare più di una protesta allora il nostro film sarebbe potuto diventare un progetto più collettivo.

Per me questa idea di collettività ha cominciato a diventare sempre più importante. Ho anche sentito che, poiché c’erano così tante cose che stavano accadendo contemporaneamente in India, per spiegare ognuna di loro ci sarebbe voluto un film di 5 ore. D’altra parte penso che troppe informazioni allontanano talvolta le persone dal cuore di ciò che sta accadendo. Io non sono questo tipo di regista, non sarei mai riuscita a fare un film di questo tipo, mentre esistono dei documentaristi di talento che sanno gestire alla perfezione questo tipo di narrativa.

Infatti, se tu avessi scelto questo approccio, il tuo film sarebbe stato più investigativo…

Sì, sarebbe stato più informativo, sarebbe diventato una specie di cronaca. Volevamo evitare questo tipo di approccio, perché cinque anni sono tanti da mettere in un film di un’ora e mezza. Volevamo dare il senso di una lunga notte di oscurità, ecco perché il film si chiama A long night of knowing nothing perché quanto accade è un lungo movimento di protesta che sembra essere una notte senza fine.

 A long night of knowing nothing è un film molto ‘notturno’ anche nelle scene diurne, non solo metaforicamente per il soggetto di cui tratta ma anche per l’estetica dell’immagine stessa, spesso buia e pastosa. Inoltre, anche se siamo nel 2015 all’inizio del film, guardandolo abbiamo l’impressione di una linea temporale più incerta e dispersa, corroborata anche dall’uso di vecchi filmati degli anni ’70 e ’80…

 Sì, è la sensazione che volevamo creare! Ho sempre saputo di non volere fare un film con una cronologia lineare.

Come avete lavorato nella prima parte del film con questi materiali di found footage? Avevamo parecchi vecchi filmati in bianco e nero ma pochissimi e brevi filmati a colori; alcuni secondi di un matrimonio e di una festa di compleanno.

Le immagini delle feste all’università invece sono recenti e sono state girate da noi. Le abbiamo girate apposta per ottenere questa sensazione di un’altra epoca grazie alla luce dei proiettori che cade sui ballerini e che crea una sensazione molto ambigua. Non si può dire esattamente cosa stia succedendo perché i ballerini entrano ed escono dalla luce dei proiettori.

Per quanto riguarda il found footage a colori degli anni ’70 e dei primi anni ’80, abbiamo scoperto questo bellissimo materiale d’archivio in modo casuale su Pad.ma, un sito gestito da un collettivo di artisti e curato da Sumesh Sharma che ha avuto l’idea di mettere on-line i film di famiglia di suo nonno. Questo sito web può essere consultato da tutti.

Stavamo visitando Pad.ma perché non sapevamo ancora esattamente quale direzione avrebbe preso il nostro film. Stavamo montando un po’ per vedere come ci sentivamo, procedendo a tappe, per tentativi successivi.

Come si è svolto il montaggio del film?

Il montatore del film è il mio partner, Ranabir Das, ma abbiamo lavorato insieme e collaborato strettamente anche su questo aspetto della pellicola. Come dicevo prima, non abbiamo montato il film in modo lineare. Abbiamo proceduto montando parti diverse e mettendole poi l’una accanto all’altra. Ci è spesso capitato di guardare l’insieme di quanto avevamo già montato e di pensare che era un disastro assoluto e che non aveva alcun senso. Il nostro film è, in fin dei conti, un film di found footage, per cui abbiamo lavorato cercando di aggiungere e scrivere dei testi con il mio co-scenarista Himanshu Prajapati, per organizzare e dare un significato alle immagini, cercando di vedere, per tentativi successivi, quali risultati creava la giustapposizione di un certo testo con le immagini e con il suono.  Mi è piaciuto molto lavorare a questo processo!

Nell’ultima parte del film c’è una scena forte, indimenticabile e straziante; in una stanza si rifugiano molti studenti quando improvvisamente la polizia fa irruzione li accerchia e comincia a colpirli brutalmente mentre loro implorano pietà e cercano di scappare. Questo episodio è reale?

Questo episodio è realmente accaduto, purtroppo.  La maggior parte dei filmati che avevamo sulle proteste degli studenti sono tutti su Internet. La gente li ha messi in rete perché stavano accadendo in quel momento e tutti le stavano postando. Stavo proprio pensando a tutto questo mentre facevo il film; succedono così tante cose ogni giorno, le postiamo immediatamente sulle nostre pagine di Facebook ma poi scorrono giù, vengono sostituite da altre e ce ne dimentichiamo molto facilmente.

Ad un certo punto del film ‘L’, la protagonista che si sente parlare in voce off, dice che continuerà a ritagliare immagini dai giornali per farne una specie di collezione, come si faceva un tempo e preservare una traccia degli eventi….

Infatti, questo è il problema che affrontiamo oggigiorno; la violenza è diventata solo un altro post su Facebook, basta guardare i post successivi, ed è già sparita!

Anche se molti di questi clip sono disponibili su internet, il montaggio che fai nel tuo film dà loro un nuovo significato e crea un nuovo insieme di connessioni e di significati alle immagini, in questo contesto il suono è un altro elemento molto importante. Usi diverse modalità di suono off e on costruendo un ricco paesaggio sonoro anche grazie alla presenza della musica. Come hai lavorato su questo aspetto della pellicola?

Mi è sempre piaciuto lavorare con il suono. In quanto professionista ho iniziato a lavorare con il suono e faccio ancora molto sound design. Di solito lavoro alternativamente sulla timeline del suono e su quella dell’immagine.  Mi piace lavorare con il suono perché il suono e un elemento che ‘colpisce’ direttamente lo spettatore e noi lo abbiamo usato precisamente in questo modo dando spazio ai bassi, ai rimbombi e al rumore ambiente negli interni. Questetonalità di suoni molto bassiinfluenzano la nostra fisiologia. Le vibrazioni create dal suono percuotono direttamente il nostro corpo. La vibrazione è davvero molto importante. Ricordo  un’intervista di Lucrecia Martel che mi aveva  particolarmente incuriosita  in cui la regista spiegava che l’elemento delle vibrazioni sonore è qualcosa di  essenziale nei suoi film. Mi sono resa conto che quello che diceva aveva davvero un senso per me.  L’immagine è qualcosa che è sempre lì davanti a te, ma il suono è come trovarsi in una piscina: se sei lì in un punto e qualcuno si butta dall’altra parte, allora senti le vibrazioni che arrivano fino a te; è una sensazione fisica, percepisci le onde acustiche sul tuo corpo. E proprio partendo da queste considerazioni che ho pensato il suono del film. Il suono è qualcosa che, effettivamente, ti colpisce direttamente e va oltre. Credo che anche la musica lo faccia, ma abbiamo cercato di usare il suono come elemento principale. L’impatto della musica è essenzialmente emotivo.

Anche l’uso della voce è molto importante nel tuo film. All’inizio del film introduci un personaggio femminile chiamato “L”, che è completamente fittizio. Lo percepiamo come una voce fuori campo. Attraverso “L” costruisci un’intimità con noi spettatori, immergendoci allo stesso tempo in una sorta di mistero…

Sì, siamo partiti da un punto di vista molto personale, individuale, all’inizio, ma poi, poco a poco, abbiamo aggiunto tutte le voci dei veri studenti e dei manifestanti; è un film con molte voci, che alla fine diventa un evento globale.

Quanto tempo ci è voluto per completare questo progetto?

Ci è voluto molto tempo. In realtà, abbiamo iniziato a filmare a partire dalla fine del 2016, inizio 2017.  La sequenza finale è quella che abbiamo montato per prima, per cui sapevamo subito verso dove volevamo andare visto che questa sequenza funzionava bene ed era per noi la somma delle idee che difendevamo come studenti. Abbiamo iniziato a montare delle sequenze e a cancellare sequenze… Ho tutto un secondo film da parte, se volessi, potrei tirarlo fuori immediatamente! Poi nel corso degli anni, dal 2018 in poi, abbiamo iniziato a montare davvero questo film.

In realtà, in quel momento stavo lavorando ad un progetto di fiction ed ero in Francia in una residenza per registi. Sapevo che il finanziamento avrebbe richiesto molto tempo perché era il mio primo lungometraggio di finzione. Quando si monta un progetto di fiction, c’è molto tempo libero tra le diverse fasi del progetto, soprattutto nella fase di scrittura, per fare altre cose perché di solito mandi la tua sceneggiatura da leggere a diverse persone e poi ci sono dei periodi di stasi. In questo periodo mi sono di nuovo occupata del progetto di A Night of knowing nothing e ci ho lavorato su durante tutto il 2018 e il 2019. Nel 2019 ho mostrato alcune parti montate al mio produttore francese Thomas Hakim (Petit Chaos) che sta producendo anche il mio prossimo lungometraggio di fiction. Anche se quanto gli abbiamo mostrato era in una fase molto iniziale, gli è piaciuto e ha deciso di appoggiarci. Gli abbiamo spiegato di cosa trattava il film e poi lui e il suo socio hanno deciso di lanciarsi in questo progetto e hanno iniziato a cercare dei finanziamenti. Ma, fondamentalmente, a quel punto noi avevamo già girato gran parte del film…

Nel film c’è anche una sequenza di A bout de soufle di Godard. Quali registi sono stati une fonte d’ispirazione per te?

Questo inserto era in effetti una sorta di omaggio a Godard. Oltre Godard anche Chris Marker è stato sicuramente un’ispirazione e un riferimento fondamentale per me. Ultimamente ammiro molto anche il lavoro di Miguel Gomes soprattutto per il modo in cui tratta il confine tra fiction e non-fiction; questo aspetto del suo modo di fare cinema mi entusiasma in particolar modo. Guardare  un film che non è inibito da una rigida separazione tra ciò che è fiction e ciò che è non lo è ha avuto un effetto liberatorio su di me. Inoltre Gomes è un regista capace di parlare di cose molto complesse e potenti ed essere molto divertente al contempo!

Fra i miei registi di riferimento c’è anche István Szabó; sono una grande fan soprattutto dei suoi cortometraggi. 

Per quanto riguarda il cinema indiano sia io che Ranabir Das, ammiriamo molto  Ritwik Ghatak.  Ghatak ha vissuto nello stesso periodo di Satyajit Ray, ma era molto più politico di lui e purtroppo non ha avuto lo stesso riconoscimento.  Il suo impegno politico, la sua creazione d’immagini e il modo in cui questi elementi si uniscono, con una chiarezza e una precisione sbalorditiva nei suoi film, sono davvero un’’ispirazione costante per noi. A nostro avviso la sua opera cinematografica è tout court la più importante del cinema indiano di tutti i tempi.

Le questioni politiche saranno cruciali nel tuo lavoro anche in futuro?

Penso che tutto sia comunque politica, ma questa è stata in effetti la prima volta che ho affrontato apertamente un soggetto politico, altrimenti ho fatto piuttosto dei film sulla condizione femminile e su cosa significhi essere una donna in India, una questione di fatto molto complessa.

Il tuo prossimo progetto?

Sarà un film di fiction. Sto ancora scrivendo, quindi ci vorrà ancora del tempo per girarlo, ma il processo di scrittura è quasi finito. Ci siamo presi una pausa Ranabir ed io, per la presentazione di A long Night of Darkness alla Quinzaine des Réalisateurs ma ora torneremo sicuramente a metterci al lavoro!

Se ti è piaciuto quello che hai letto, perché non lo condividi?
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.