di Vincenzo Riccobono /Il film comincia con una fuga. Tra i vicoli di Roma un ladruncolo di periferia, non più tanto giovane, con un’aria spaesata e spaventata, è inseguito dalla polizia e finisce nel fiume, infido torbido e minaccioso.
Ne fuoriesce, contaminato da rifiuti tossici, espelle, sputa liquido nero dai polmoni e si rifugia infine nello squallido appartamento di Tor Bella Monaca, dove vive, e dove vivono altri individui, segnati dall’appartenenza ad un underground malavitoso e perduto. Al piano di sotto un padre, ladrone e ricettatore, appartenente a una crudele banda, e la figlia, persa nell’unico mondo di favole che ha mai conosciuto, quello dei cartoni animati giapponesi della fine degli anni settanta. Un po’ strano per una giovanissima donna che in quegli anni era ben lungi da nascere, ma tant’è, il film è rivolto a chi ha in qualche modo attraversato quel periodo, e il meccanismo identificativo tra dissociazione identitaria e produzione favolistica di massa “funziona” bene proprio a partire dai cromatismi narrativi e dalla semplicità dei significanti impiegati che dovrebbero, in questo contesto linguistico, tradursi quasi automaticamente in poesia. Automaticamente, appunto.
Il ladruncolo si reca dal ricettatore per vendergli l’orologio rubato e viene da questi coinvolto in un loschissimo affare, dove è coinvolta la banda romana comandata dallo “zingaro” e una frazione della camorra napoletana, per il recupero di ovuli di cocaina ingoiati da due neri miserelli. Di questi uno muore per la rottura degli ovuli e l’altro sconvolto uccide il ricettatore e spara al ladruncolo che finisce nove piani sotto. Muore? Ovviamente no, il bagno nel fiumaccio boia lo ha reso indistruttibile e fortissimo.
Il futuro eroe torna alla sua vita squallida di uomo senza amici, senza donne se non quelle dei film pornografici che consuma in modo solitario, alla sua disperazione, non sapendo neanche bene cosa farsene di questi inaspettati superpoteri.
Sarà una principessa, ormai senza padre, a rivelargli il significato della missione che è chiamato a compiere: lui è diventato Hiroshi, Jeeg Robot, e deve salvare l’umanità, come recita la canzoncina che tutti conosciamo e lui, privo apparentemente di anima, porterà a compimento la sua missione preso per mano e guidato dall’amore per lei.

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Lo scontro con il male è violentissimo e lei perde la vita.
Fino a questo momento siamo dentro una favola urbana, intrisa della violenza del sottoproletariato romano, ormai tossico e lontano anni luce dalla dilaniante lucidità pasoliniana, in qualche modo una favola iperrealista e televisiva, un mix del reality di Garrone (molto più bravo a penetrare nel cuore oscuro della favola), delle varie gomorre televisive e di film noir sulla banda della magliana. In questa atmosfera è inserito, quasi a forza, il distorcente volto dell’attore Luca Marinelli (lo Zingaro), che nel film di Claudio Calligari, Non essere cattivo, aveva dato una prova molto convincente sì, ma perché ben diretto e in un bel film, in questo è ripetitivo e le smorfie e l’aria allucinata, unita ad una cattiveria inaudita e inutile, appaiono costruiti e falsi.

lo-chiamavano-jeeg-robot-2015-gabriele-mainetti-01 Il film diventa decisamente parodistico dopo la morte della principessa e dopo che lo scontro tra l’eroe buono e il pazzo criminale che ha acquisito gli stessi superpoteri con la stessa modalità, si trasforma in uno sbracato carnevale, in un cartone di serie z, senza per altro averne l’innocenza e l’ingenuità. La cattiveria del pazzo tocca l’apice con il suo tentativo di far esplodere lo stadio Olimpico nientemeno che durante il derby Roma- Lazio. Si può essere più cattivi e disumani?
Più che il film sono le aspettative che il film genera a incuriosire, poichè indubbiamente si tratta di un successo, diciamo trasversale, e come ogni successo è soprattutto è il meccanismo del passaparola che lo ha reso possibile, senza dei riferimenti diretti e personali non sarei andato a vederlo.

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Inizialmente considerato un inside joke, ovverossia una produzione fruibile solo all’interno di cerchie di consumatori e cultori autoreferenziali si sta trasformando in un fenomeno popolare, in una sorta di ingresso ufficiale del nostro cinema in territori altri, ma che attinge anche ad una solida base di frequentazione intellettuale. Un miscuglio di idee e esperienze derivate dai fumetti americani e dai manga giapponesi, che sicuramente hanno generato prodotti anche di alta qualità in campo letterario e soprattutto cinematografico, fondati su meccanismi cinetelevisivi che al di là degli scopi prettamente commerciali (non certamente secondari) affondano il mestolo in un primordiale brodo di antropologiche illusioni.
Abbiamo finalmente anche noi la nostra saga urbana, acclama la critica, ed è originale, romanissima, ha il volto rassegnato umile e stanco dell’antieroe Santamaria, il ghigno distorto del joker pazzoide Luca Marinelli e la disincantata demenza della principessa della periferia romana, Ilenia Pastorelli, anche lei calzante il suo ruolo come un guanto.
C’è di tutto nel film, lo splatter tarantiniano, il gotico di di Gotham City, la pretesa poesia di Miyazaki e la squallida realtà dell’immensa e desolata periferia romana, forse la peggiore del mondo. Anche i cammorristi napoletani, comandati da Nunzia, dura e cattiva, e piuttosto somigliante, guarda un po’, a Nunzia Di Girolamo, partecipano all’allegro casino di sangue e crudeltà. Ma il film non è divertente, anche se un certo registro comico è deliberatamente ricercato, eppure la sala letteralmente esplode in fragorose risate (che nulla hanno di liberatorio, piuttosto una sorta di complicità) quando proprio non se ne avvede il motivo, e alla fine tributa un prolungato applauso. C’è veramente di che interrogarsi.
Il volto finalmente sorridente dell’eroe, creduto morto, nell’atto di coprirsi il volto con la maschera di Jeeg Robot, fatta all’uncinetto dalla principessa, ammicca ahinoi a un prossimo sequel. Ma questo film è già un sequel, di un sequel di un sequel…

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