Il tema del doppio artistico, del personaggio che sequestra il proprio attore nella prigione del copione obbligato e ne prosciuga linfa creativa e demone interiore (obbligo o verità?), appartiene all’epoca delle letterature d’autore. Non è più così nell’epoca di internet, in cui l’autore e l’attore (figuriamoci la persona umana) non esistono più ed è la stessa utenza famelica di immagini sensazionali ad improvvisare la regia senza copione della comedie humaine. Il tema del doppio diventa sul web quello del multiplo, della moltiplicazione incontrollata delle proprie virtuali riapparizioni nell’onnipresente altrove che è il socialnetwork.

Un attore desidera rilanciare il possibile altro sé stesso in un’appassionata performance teatrale (basata sul minimalismo smascherante di Carver). Rinuncia all’infrastruttura della notorietà (twitter e FB) per riconquistare l’anonima libertà di cambiare genere e ruolo. Pratica la levitazione buddista per riusare i superpoteri, cui lo ha condannato il suo passato di Uccello per le masse, in modo da raggiungere invano il distacco da sé. Vorrebbe ridiventare un corpo energico e nudo (seguito in piani sequenza attraverso l’intero svolgimento dei suoi drammatizzanti quanto dissociati vissuti), un corpo bramoso di vita pulsante (una batteria jazz ne commenta live gesti e movenze), ma gli accade goffamente di rimanere chiuso fuori dalla porta di accesso alla scena teatrale in attesa della sua decisiva battuta.

Così, uno che si è costruito un esplosivo mondo di dentro per non rimanere vittima della fabbrica della notorietà là fuori, che ha con l’amico avvocato assestato colpi bassissimi pur di scritturare un valido antagonista scenico non ancora risucchiato nella macchina delle serie televisive, si trova in mutande ad attraversare l’angolo tra Times Square e Broadway Str. e riconquistare l’ingresso del teatro. I dieci secondi in cui la folla ne impatta la flaccida comicità di ex divo, vengono postati immediatamente. Senza regia né copione prestabiliti (il post in real time come opposto dei mahleriani piani sequenza di Iñarritu), la folla internautica ne fa il supereroe non del “momento decisivo”, ma del ridicolo autoparodico. È immortalato e non più in grado di vita propria, e quando si decide per il gesto estremo (come un pirandelliano Enrico IV), scopre di non potersi recidere la maschera ed essere obliato: del sangue il pubblico vuole la sensazionale e rassicurante esibizione scenica, mentre sui social la recita della vita, in forma di parodia sfigurata e ridondante, continua tra veglie di preghiera e interminabili processioni.

Non c’è più vita né attorialità là dentro, dove il più potente monologo metateatrale di sempre (quello del buffone Macbeth) è urlato oramai in un disimpegno grigio e oblungo, da un solitario anonimo, come in un averno osceno (fuori scena) dove è ammassato ciò che resta degli autori e della vita. In un film che cerca disperatamente di dare sfogo e grido allo scarto tra lo schermo super amoled e la corporeità del teatro, e di infrangere le parole etichettanti dell’ispirata columnist del Times (che non legge più nessuno ed è surclassata a rivedere la “propria” recensione demolitoria dalla standing ovation di un pubblico ebete), passa in secondo piano l’intreccio delle relazioni umane: un antagonista brillante ma cinico e impotente, una figlia intossicata dalle assenze e dai patetici tentativi di recupero del genitore ostaggio dei suoi personaggi, una condivisa incapacità di amare (ecco Carver) e di generare perché incapaci di amare e di sentire sé stessi.

Nell’epoca di internet è impossibile sentire sé stessi, la vita è internata e si rimane assordati dalla cruda verità consegnata alle parole della fragile figlia (che ha dimostrato al padre la consistenza dell’ego essere pari a uno sperduto pulviscolo stellare): caro papà, senza follower su instagram non sei più nessuno (ma dei follower diventi poi il superzimbello). Il meglio è forse, non potendo più essere Ulisse (R. Barthes docet), diventare Nessuno? In folle volo…

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