Dopo dieci giorni di festival molto intensi, sabato scorso si è conclusa, con l’annuncio dell’attesissimo Palmarès, la 60esima edizione della Berlinale. Durante la cerimonia di chiusura la tensione in sala era palpabile: difficile fino all’ultimo momento immaginare il verdetto di una giuria alquanto eterogenea di fronte ad una selezione relativamente omogenea e di buon livello. Alla fine, nonostante l’apprensione generale, tutto sembra essere andato per il meglio. Werner Herzog, presidente della giuria, si è felicitato con l’organizzazione del festival per la scelta dei suoi collaboratori rassicurando i presenti che tutte le decisioni sono state prese molto rapidamente senza animosità né rancori.

L’Orso d’Oro, somma ricompensa del festival, è stato così attribuito all’unanimità a Bal (Miele) del regista turco Semih Kaplanoglou. Premiando Bal la giuria ha operato una scelta felice, ispirata e lungimirante. Bal, certamente di non facile approccio, è un film destinato a durare nel tempo, una vera opera d’arte: poetico, profondo, commovente e di una rara bellezza. Kaplanoglou ha saputo sondare l’intimità del suo personaggio principale, un bimbo di sette anni, con un pudore e una sensibilità fuori dal comune, offrendoci un ritratto d’infanzia fra i più autentici ed intensi nel cinema in questi ultimi anni. Il film è inoltre illuminato dall’interpretazione straordinaria di Bora Altlas, nel ruolo del piccolo Yusuf. Visibilmente commosso al momento di ricevere il premio, Kaplanoglou ha scherzato dicendo che il titolo del film gli aveva probabilmente portato fortuna visto che gli orsi, com’è noto, amano il miele!

If I want to whistle, I whistle, opera prima del rumeno Florin Serban, ha creato la sorpresa ricevendo due ricompense molto importanti: il premio Alfred Bauer e il Gran premio della  Giuria. Il film ci narra la storia di un giovane carcerato, indomito e ribelle, in uno stile sobrio e misurato che ricorda a tratti il cinema dei fratelli Dardenne. Molto del successo di questo lavoro è dovuto al carisma del suo protagonista, George Pisteranou, un attore non professionista, nonché alle interpretazioni di un gruppo di ragazzi selezionati in un centro di detenzione per minori. Florin Serban sa mantenere nella sua messa in scena la giusta distanza dai personaggi trascrivendone in modo intenso la fisicità, l’aggressività latente e l’indomabile voglia di vivere;  peccato solo che queste qualità siano sminuite da una sceneggiatura piuttosto macchinosa.

L’ambito Orso d’Argento per la migliore regia è stato attributo a Roman Polanski per The Ghost Writer (L’uomo nell’ombra), un film noir a sfondo politico. L’annuncio di questo premio è stato accolto in sala stampa da un brusio di disapprovazione. The Ghost Writer è un film molto ben costruito, con un linguaggio estetico di classe, un’ottima fotografia, un buon ritmo narrativo, pieno di humour. Godibilissime sono anche le interpretazioni di Ewan Mac Gregor, nel ruolo dello scrittore-detective, e di Pierce Brosnan, nei panni di un ex-primo ministro affascinante ed ambiguo. Ciononostante The Ghost Writer è un’opera piuttosto liscia e convenzionale. Molti si sono domandati il perché di questo premio che sembra essere stato dettato ben più da una questione di solidarietà con l’artista che dal valore intrinseco del film in questione. Polanski, che per le note ragioni non ha potuto ritirare il premio personalmente, è stato rappresentato dai suoi due produttori: Robert Benmoussa e Alain Sarde. Ricevendo l’Orso dalle mani del presidente della giuria Alain Sarde ha commentato l’assenza del regista citandone le parole: “Anche se avessi potuto venire a Berlino – pare abbia detto Polanski – non l’avrei certamente fatto… L’ultima volta che sono andato a ritirare un premio ad un festival sono finito in carcere!”

Uno dei momenti più calorosi della cerimonia è stato quello della doppia premiazione
di How I ended this summer del russo Alexei Popogrebski. Dopo avere ricevuto l’Orso d’Argento per la migliore fotografia,  il team del film, che non aveva ancora avuto il tempo per rimettersi dall’emozione, è stato sorpreso dall’annuncio di un ulteriore premio, quello per la migliore interpretazione maschile, attribuito ex-aequo ai due protagonisti: Grigory Dobrigin e Sergei Puskepalis. I due attori sono stati accolti sul palco da un lunghissimo applauso. How I ended this summer è un thriller psicologico, sottile e profondamente umano, girato in una vecchia stazione meteorologica nel circolo polare artico. Popogrebski riesce a fare montare la tensione fra i due protagonisti attraverso un’osservazione precisa e penetrante del loro comportamento. Sergei, un meteorologo veterano e Pavel, il suo giovane aiutante, isolati e abbandonati a se stessi, vivono una vera e propria odissea nell’universo dilatato e fuori dal tempo che li circonda. Le immagini della natura circostante nella loro bellezza ruvida e spettacolare si fondono con gli stati d’animo dei due uomini e costituiscono lo scenario ideale per un dramma più metafisico che esistenziale. Filmato con rigore e coerenza dalla prima all’ultima scena How I ended this summer é stato, a mio avviso, uno dei film più interessanti di questa selezione.

L’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura è andato a Tyan Hyuan, Apart-Toghether, del cinese Wang Quan’an.  Il regista, co-autore della sceneggiatura, si è dichiarato molto felice, sorpreso ed onorato visto che il suo film era già stato scelto per inaugurare la manifestazione.
Wang Quan’an affronta nel suo film un soggetto politico complesso, quello dei rapporti fra la Cina e Taiwan, attraverso la vicenda di un ex-soldato del partito popolare. L’uomo, fuggito trent’anni prima da Shanghai lasciando dietro di sè la moglie che non ha più rivisto da allora, può finalmente ritornare per alcuni giorni nella sua città. Tuan Hyuan ci racconta la storia di questo incontro, di questa riunificazione. Ovviamente le cose non sono così semplici: la donna si è risposata nel frattempo ed ha fondato un’altra famiglia. Il regista mette in scena con grande finezza ed humour la relazione delicata e complessa fra l’anziana e i suoi due mariti trascinandoci in un insieme di situazioni tragicomiche che sboccano in un happy end finale. Nonostante queste qualità Tuan Hyuan pecca di una certa superficialità: nel film il conflitto politico serve piuttosto da tela di fondo ed è minimizzato a profitto di  un’improbabile riconciliazione personale. Sarebbe bello se le ferite causate da lacerazioni storiche di questa portata potessero risolversi in maniera tanto armoniosa e serena come in questo film ma sembra difficile crederci. Attribuendo a Wang Quan’an l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura la giuria ha premiato un film “politicamente corretto” su un soggetto, quello della riunificazione, molto sensibile in Germania – ed a maggior ragione a Berlino – assicurando al contempo anche la continuità dei suoi rapporti con un artista fedele alla manifestazione.

Il Giappone è stato doppiamente ricompensato con l’attribuzione di due premi ai film di due veterani del cinema. Shinobou Terajima, l’attrice
protagonista di Caterpillar di Koji Wakamatsu, è stata premiata come migliore interprete femminile: un riconoscimento molto meritato per il film certamente più scioccante, radicale e sovversivo in competizione quest’anno. Caterpillar ci illustra la vita coniugale fra un soldato tornato dal fronte della guerra sino-giapponese orribilmente mutilato e sfigurato – un semplice torso umano – e sua moglie. Il film è un’opera antimilitarista dal forte contenuto politico: una denuncia della guerra attraverso le sue conseguenze, attraverso quel dopo e quell’altrove che si trova lontano dai campi di battaglia. Wakamatsu, che ha vissuto durante la sua infanzia la seconda guerra mondiale, svolge da anni una riflessione su questa tematica. L’anno scorso aveva partecipato alla Berlinale con un altro film a sfondo politico: United red Army. Infine, l’anziano maestro Yoji Yamada, che ha presentato il suo ultimo film, Otouto, fuori competizione, è stato onorato con la Camera d’argento per la sua carriera, un premio inteso anche come riconoscimento alla fedeltà del regista che ha partecipato nel corso degli anni per ben sette volte al festival.

Una Palmarés è frutto di una decisione non solo estetica ma, in un certo senso anche politica, nel senso ampio del termine. Risultato di discussioni e compromessi i premi  riflettono non solo il gusto dei giurati ma anche la loro propensione, più o meno marcata, per la diplomazia…
Il Palmarés della 60esima Berlinale, pur essendo nell’insieme onorevole, tradisce un certo conformismo. Peccato che la giuria non abbia preso un po’ più di rischi premiando, per esempio, un’opera piena di fantasia, originalità ed umanità, come Mammut di Benoît Delépine e Gustave de Kervern, o un film rigoroso, teso e denso come Der Räuber di Benjamin Heisenberg.

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