Un altro film escluso dal Palmarés, nonostante fosse annoverato da molti fra i favoriti della competizione, é stato A tale of three sisters del regista turco Emin Alper. Ambientato in uno sperduto villaggio dell’Anatolia, A tale of three sisters é un inno al coraggio e allo spirito di resistenza delle donne. Emin Alper riesce a tratteggiare con grande finezza psicologica i rapporti complessi fra tre sorelle costrette a subire le leggi ingiuste e feroci di un’arcaica società patriarcale.Osservazione etnografica e mondo fiabesco s’incontrano in una messa in scena che sa cogliere tutta la magia e la bellezza naturale dei luoghi esaltando la luce del fuoco e l’atmosfera rarefatta delle montagne. A tale of three sisters ci offre uno spaccato di vita intenso e poetico al centro del quale brillano, come gemme grezze, le tre meravigliose protagoniste del film.

Il premio per la migliore regia assegnato ad Angela Schanelec per il suo fulgido Ich war zu Hause aber, è un riconoscimento meritato e dovuto da tempo ad una delle voci più incisive del cinema tedesco d’autore.Intimamente legata al mondo del teatro ed attrice lei stessa, Angela Schanelec conosce il peso della parola e lo spazio vitale del non detto.Ich war zu Hause aber, film costruito ai margini con un budget minimo, risplende di una luce tutta sua fatta di frammenti d’arte e di teatro, di brandelli di vita, di speranza e di un dolore dai tratti quasi autobiografici. L’universo del film si condensa intorno al suono delle voci, intorno alla fugacità misteriosa d’immagini-apparizioni spesso fuori contesto come l’asino che ci viene incontro placido ed ermetico nella sequenza iniziale del film. Nel corso della pellicola seguiamo una madre, interpretata con sensibilità e fermezza dalla meravigliosa Maren Eggert, e i suoi due figli, li vediamo vivere; in casa, per le strade di Berlino, a scuola. Da ogni istante può scaturire un incontro con gli altri, breve e fugace ma pertanto intenso. Ich war zu Hause aber non è un film docile, non è un film facilmente leggibile, è piuttosto un film ellittico e discontinuo che resiste alle convenzioni della narrazione mettendone in forse, ad ogni istante, la legittimità per mantenere intatto il suo mistero.

Agli antipodi, Systemsprenger della tedesca Nora Fingerscheid, opera prima ricompensata curiosamente proprio con il premio Alfred Bauer che onora l’innovazione, si muove sul terreno battuto delle convezioni proponendoci un film scontato in cui l’impegno sociale del contenuto e l’impianto realista della messa vanno di pari passo.

La Francia conferma la sua posizione di forza nel panorama cinematografico, aggiudicandosi i due premi principali del concorso internazionale: il Gran premio della giuria é stato infatti attribuito a François Ozon per Grace à Dieu e l’Orso d’oro per il miglior film a Nadav Lapid per Synonimes. Pur compartendo lo stesso paese di produzione, si tratta di due opere radicalmente diverse: Grace à Dieu è un film di denuncia, costruito solidamente intorno ad un canovaccio narrativo tradizionale, mentre Synomimes si muove su un terreno non cartografato giocando liberamente con i codici linguistici e flirtando con l’assurdo.

 “Sono molto felice di ricevere questo premio per un soggetto che mi tiene particolarmente a cuore, la protezione dell’infanzia, e per un film che cerca di rompere il silenzio sul soggetto degli abusi sessuali su minori in seno a delle istituzioni potenti.” Ha dichiarato François Ozon, visibilmente commosso, nel suo discorso di ringraziamento, aggiungendo: “Non so se il cinema può cambiare il mondo ma può certamente aiutarci a comprenderlo meglio. Vorrei condividere questo premio con tre uomini che mi hanno ispirato, tre uomini che sono stati vittime di un prete pedofilo. Alexandre, François e Pier-Emanuel, voi siete I miei eroi!”

Ispirata direttamente a dei fatti reali di cui vuole essere porta-parola, Grace à Dieu, è un’opera atipica all’interno della filmografia di François Ozon.La ricerca che precede la scrittura del film è stata effettuata da Ozon sul terreno con la precisione e la meticolosità che il regista avrebbe impiegato per girare un documentario. Dopo avere scartato quest’idea, che non gli era completamente aliena all’inizio, Ozon ha optato per la finzione mantenendo inalterati i nomi dei membri clero e, in particolare, quello del prete pedofilo che è al centro di questa vicenda: Bernard Preynat. Grace à Dieu, cronica accurata di un dramma collettivo, messo in scena con un’empatia priva di sentimentalismo, è meravigliosamente portato dalle interpretazioni a fior di pelle dei suoi tre protagonisti: Melvil Poupaud, Denis Ménochet e Swann Arlaud. Va detto infine che François Ozon è stato attaccato in giustizia dagli avvocati di Preynat mettendo in forse l’uscita del film in sala, perché nuoce alla cosiddetta ‘presunzione di innocenza’ dell’accusato.

 Coronamento di una serata di gala ricca di emozioni, l’annuncio del film vincitore di questa 69esima edizione: Synomimes di Nadav Lapid, prodotto da Saïd ben Saïd, è stato accolto con grande entusiasmo e con un calorosissimo applauso in sala. Premiando Synonimes la giuria di Juliette Binoche ha voluto riconoscere l’importanza di una visione cinematografica ardita ed innovante.Synomimes, terzo lungometraggio di Nadav Lapid, conferma il talento prorompente e l’impronta inconfondibile del regista che fin dal suo primo film, Policeman- Premio speciale della giuria a Locarno nel 2011- si è imposto come una delle voci più rilevanti del giovane cinema d’oggi.

Molto emozionato, tenendo in mano la statuetta dell’Orso d’oro, dopo i ringraziamenti d’uopo, Nadav Lapid ha dichiarato: “Sono conscio del fatto che Synonimes sarà probabilmente giudicato come un film scandaloso in Israele, so che anche in Francia potrà dare fastidio a molti. Con Synomimes ho voluto in primo luogo rendere un grande omaggio al cinema. Spero veramente che gli spettatori capiscano che la rabbia, l’ostilità e il disprezzo sono dei sentimenti che esistono anche fra fratelli e sorelle e sono segno di un affetto profondo e di emozioni potenti!”

Synomimes ci trascina con furia, determinazione e raffinatezza, sulla traiettoria di Yoav, giovane israeliano approdato a Parigi per fuggire da una patria che rigetta in blocco.In una lotta senza quartiere per riuscire ad integrarsi nel suo paese d’elezione- una Francia meravigliosa ed idealizzata- la lingua e il corpo sono le due sole armi di cui Yoav dispone.Come un fiume in piena, le parole inondano la quotidianità del ragazzo che recita a non finire i sinonimi di un dizionario francese camminando furiosamente per le strade di Parigi come su un terreno di battaglia. E di battaglia si tratta: esilio, ricerca di una nuova identità, di nuovi valori, di una nuova patria. Nadav Lapid, che ha vissuto questo processo sulla sua pelle, lo traduce in un turbine d’immagini e parole rabbiose, precise, sarcastiche, dolenti. Al grigiore indifferente di Parigi, Yoav oppone il vigore del suo corpo in costante movimento, un corpo che vuole conquistare il suo spazio vitale e non esita a buttarsi a rompicollo su ogni occasione che gli capita: lavori saltuari, serate in discoteca, fotografie pornografiche. Con una virtuosità senza pari la cinepresa di Nadav Lapid s’incolla alle evoluzioni di questo corpo per le strade della città, nei luoghi pubblici e privati, creando una coreografia sublime, fatta di scatti improvvisi, di deviazioni e di soste inopinate.

Al termine d’innumerevoli traversie il periplo di Yoav si conclude con una constatazione amara. Che si tratti di Israele o della Francia, la nozione di patria, la questione dell’identità nazionale e quella dell’appartenenza restano dappertutto uguali: problematiche ed irrisolte.Creare questo iato paradossale non sarebbe mai stato possibile senza l’interpretazione intensa, rigorosa e travolgente dell’esordiente Tom Mercier, la vera rivelazione del film.

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