Giunge nelle nostre sale, dopo aver incassato oltre undici milioni di euro in patria e, prima ancora, dopo aver ricevuto gli applausi dell’ultimo Festival di Berlino, Almanya – La mia famiglia va in Germania, esordio delle sorelle Yasemin e Nerin Samdereli, rispettivamente regista e cosceneggiatrice della pellicola. Nate a Dortmund negli anni Settanta, di origine e cultura turca, hanno alle spalle una lunga gavetta nel mondo del cinema e della televisione: l’una come free lance alla Bavaria Film e come  regista di varie serie tv; l’altra come aiuto e soggettista dei primi cortometraggi della sorella – Kismet (2001) e Sextasy (2004).

Questa loro opera prima poggia sulle basi solide dell’autobiografia per raccontare nei modi e nelle forme della commedia dagli accenti surreali la storia di una famiglia turca che vive in Germania da tre generazioni, da quando cioè, nonno Hüseyn, sul finire degli anni Cinquanta, arrivò con il treno della speranza alla stazione di Amburgo figurando come il milionesimo (e uno) lavoratore straniero emigrato nella Germania del boom economico per mantenere la famiglia e migliorare il proprio status. La vicenda prende avvio nell’oggi con le parole della giovane nipote del patriarca musulmano, la cui voce off commenta alcune fotografie di famiglia, e in particolare quella che immortala l’ultimo pranzo consumato assieme. Il capofamiglia, dopo una vita di rinunce e sacrifici, ha finalmente potuto realizzare il sogno di sempre: comprare una casa in Turchia per trascorrere lì le vacanze estive e far conoscere ai nuovi arrivati l’umile terra d’origine, testimone dell’amore, pudico e romantico, tra Fatma e Huseyn, i loro nonni, le loro radici. Il lungo viaggio, tuttavia, diverrà un banco di prova per sondare la forza e la lealtà dei legami familiari: sarà l’occasione più opportuna per toccare con mano la (r)esistenza di quei valori che hanno tenuto il passo della modernità.

L’immaginario filmico contemporaneo ci ha abituato a osservare il fenomeno dell’immigrazione turca nel paese che attualmente tiene le redini del potere economico europeo dal punto di vista dello straniero che non riesce a integrarsi nella realtà politica sociale e culturale che lo ospita. Facciamo riferimento, in particolare, all’opera di Fatih Akin che ha raccontato il disagio e l’isolamento di personaggi prigionieri di identità forti, poco inclini alla condivisione di obbiettivi e scelte comuni, arroccati dietro la convinzione dei pregiudizi e dell’inefficacia del dialogo interculturale. Il protagonista de La sposa turca (2004), infatti, vive la propria condizione di outsider nel segno dell’ineluttabilità e persino dell’autodistruzione. Le sorelle Samdereli seguono invece un’ottica diametralmente opposta: lo sguardo si sposta sull’individuo, o meglio su una piccola comunità, capace di integrarsi senza dimenticare il principio dell’appartenenza; senza abbandonare la tradizione. Della drammaticità e dello humor spesso cinico di Akin, come delle sue derive più grottesche (Soul Kitchen, 2009) rimane ben poco in Almanya: l’ironia assume tonalità giocose e concilianti, l’atmosfera del racconto si tinge dei colori della fiaba, accesi e ottimisti; lo stile surreale di alcune parentesi drammaturgiche, come l’incubo del crocefisso, o il sogno della sbronza di coca cola trangugiata a go-go da una cannuccia chilometrica, restituisce tutta insieme la leggerezza di fondo, la vitalità del tocco autoriale.

Nel cinema delle sorelle Samdereli i grandi temi dell’identità, dell’integrazione e del multiculturalismo passano attraverso un racconto fluido e immaginifico che si nutre dell’autenticità della memoria e della passione più genuina per la settima arte. Un film divertente e tenero, che scrive, nel suo piccolo, una pagina di cinema non banale.

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