Materia oscura, presentato nella sezione Forum della Berlinale, è un’elegia struggente alla bellezza selvaggia di un luogo, agli animali che lo popolano, agli uomini che vi vivono; un inno alla natura segnata in profondità dai residui radioattivi e sfigurata in superficie dalle vestigia di macchinari e costruzioni militari in disuso.

Il documentario di Massimo d’Anolfi e Marina Parenti non é costruito sul modo della denuncia, che i registi preferiscono lasciare alla cronaca giornalistica, ma si sviluppa come un’osservazione poetica della landa del Poligono militare di Salto di Quirra in Sardegna, avvelenata dalle sostanze tossiche degli esperimenti militari che vi sono stati effettuati dall’esercito italiano e da diverse istituzioni internazionali durante cinquant’anni, dal 1956 in poi.

Misura, sobrietà e rigore definiscono la scelta delle inquadrature ed il discorso associativo del montaggio. Fra il verde dei pascoli sorgono solitarie carcasse di carri armati in disuso; resti di ferro spinato si arricciano qua è la in mezzo ai prati; bozzoli di proiettili si annidano negli anfratti delle rocce; sulla costa, nel mezzo di una baia solitaria, si erge splendidamente inquietante una rampa lancia missili circondata da enormi pareti di metallo arrugginito.

Le riprese in piani larghi abbracciano l’insieme di un panorama composto da distese verdeggianti, spiagge a perdita d’occhio, il mare ed il cielo creando un sentimento di profonda nostalgia per la natura che si sa gravemente ferita. Il film risulta, a prima vista, criptico per chi non conosca la realtà concreta alla quale si riferisce nota, forse, al pubblico italiano, ma ampiamente sconosciuta altrove. Lo scopo dei cineasti non è, infatti, divulgativo; Materia oscura ci offre piuttosto uno stimolo, risveglia la nostra curiosità, ci spinge a cercare, a titolo personale, le informazioni necessarie per chiarire il mistero che avvolge il non detto delle immagini.

Il flusso narrativo lascia ampio spazio alle nostre associazioni; le immagini s’impongono nella loro mera fattualità senza l’ausilio di una qualsiasi voce off. Parchi sono anche gli scambi verbali fra gli uomini che vediamo aggirarsi nel luogo svolgendo le mansioni più diverse: pastori che portano le loro pecore al pascolo, contadini che girano in trattore o ancora scienziati che si spostano da un punto all’altro dell’antico poligono militare per sondare il terreno con i loro strumenti di misurazione. La cinepresa segue tutte queste attività da lontano, mantenendo sempre una distanza tale da inglobare perfettamente la presenza umana nel paesaggio circostante.

Il nostro sguardo spazia liberamente in questo vasto scenario naturale da cui emana una sensazione di pace disturbata solo dal lieve suono dei rilevatori geiger, che sentiamo in lontananza, segno tangibile della presenza di radioattività nel suolo. Queste sequenze sono montate in alternanza con una lunga serie di filmati girati dalle forze armate. I registi ci mostrano la provenienza di questo stock di riprese inoltrandosi con la loro cinepresa negli archivi dell’esercito; riprendono i magazzini con i rotoli di film accatastati sugli scaffali, seguono il lavoro dell’addetto alla manutenzione dei materiali mentre passa la pellicola su una moviola o ne taglia dei pezzi per montarli o ancora mentre la visiona su uno schermo.

Da questi spezzoni emerge una terza categoria di personaggi; i soldati e gli ufficiali del poligono militare che filmano se stessi in atto di compiere varie manutenzioni con il materiale della base. Allo sguardo dei cineasti si associa, attraverso i filmati d’archivio, lo sguardo dei registi dell’esercito che documentano il lancio dei missili e le esplosioni delle bombe. La loro presenza si fa sentire talvolta solo attraverso dei gridi di giubilo in off quando un esperimento di grande importanza è portato a termine con successo.

Come delle stelle filanti i missili lasciano le loro scie luminose nel cielo e le bombe riempiono di bagliori sontuosi l’atmosfera prima di scoppiare sul suolo; sono queste delle immagini incredibilmente magnetiche, il cui splendore irreale riesce ad operare nella nostra mente un effetto perverso di dissociazione fra la causa – gli esperimenti militari- e il loro effetto devastante sugli uomini, il suolo e gli animali.

Senza mai cedere alla tentazione di una retorica manichea Massimo d’Anolfi e Martina Parenti toccano il cuore del loro soggetto: quella di Salto di Quirra è una tragedia corale in cui sono, in fin dei conti, colpiti tutti: gli abitanti, i militari, i pastori, gli animali.

In sintonia con questa nozione lo sguardo che i registi portano sulla realtà del Poligono sperimentale Militare è uno sguardo a tutto tondo, una rappresentazione tanto più incisiva quanto più poeticamente ispirata. La materia composita delle immagini diventa traccia e testimonio del male impalpabile che impregna le fibre vitali del luogo: filmati in sedici millimetri e video in colore o in bianco e nero, in negativo e positivo, proiettati in slow motion o, al contrario, contratti in accelerato, contribuiscono a disegnare l’affresco affascinante e spaventoso di un disastro ecologico riconosciuto a malapena a livello ufficiale.

Un’unica sequenza crea una vera a propria cesura rispetto al tono volutamente pacato del film; verso la metà della pellicola il flusso alternato delle immagini in esterno e dei filmati d’archivio é brutalmente interrotto da una breve incursione nell’orrore esplicito di questa realtà. All’interno di un laboratorio assistiamo alla dissezione di un topolino; mentre il corpo dell’animale viene sezionato, rivelando delle viscere nere come la pece, lo speaker di una radio parla dei prelievi  effettuati su una serie di cadaveri umani riesumati nella zona spiegandoci come le analisi abbiano rivelato la presenza, assolutamente fuori norma, di  torio, una sostanza radioattiva, nei tessuti esaminati.

La sequenza finale della pellicola ci invita in una stalla. Un vitellino bianco, tutto tremante, si tiene a malapena in piedi. L’animale, debolissimo, non riesce a bere dalle mammelle della mucca; con premura un vecchio contadino munge il latte, lo mette in una bottiglia e cerca, come meglio può, di allattarlo. Poco dopo vediamo arrivare un altro uomo, probabilmente un veterinario. Quest’ultimo constata lo stato del vitello con il fare disilluso di chi, da tempo, è abituato a stabilire questo tipo di diagnosi; l’animale è pieno di malformazioni interne e, come tanti altri in questa zona, è destinato a morire.

Con una sensibilità priva di pathos la cinepresa trascrive, discreta, le reazioni dei due pastori, padre e figlio, alle prese con l’agonia della bestia. Il giovane si ribella, impreca, maledice il destino e se ne va, rifiutandosi di assistere al triste spettacolo di una morte ingiusta. Il padre, invece, accarezza l’animale fino all’ultimo. Con un gesto tenero e premuroso si affretta a mettere uno strato di fieno sotto il corpo della creatura per alleviarne, se possibile, la sofferenza estrema.

Raramente il cinema ci ha offerto una scena di pietas così toccante.

Il film si chiude con un meraviglioso e terribile spettacolo: il lancio di vari missili risplende come un fuoco d’artificio sinistro, freddamente glorioso nel cuore della notte, illuminando un paesaggio immenso fra la costa, la distesa del mare ed il firmamento.

Materia oscura è un requiem muto e possente per un pezzo di paradiso trasformato, per mano degli uomini, in inferno. L’impressione che ci lascia è, senza ombra di dubbio, dur
atura.

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