Giunta ormai alla sedicesima edizione, la rassegna napoletana Artecinema, festival di documentari sull’arte contemporanea diretto da Laura Trisorio, rischiava quest’anno di ritrovarsi vittima del “fuoco amico”. Negli stessi giorni si svolgeva, infatti, anche il Napoli Film Festival, collocato solitamente nel mese di giugno, costringendo gli appassionati – per il resto dell’anno alla disperata ricerca di proiezioni diverse dal circuito mainstream – a dolorose scelte, e frettolosi spostamenti in funicolare dalla collina di San Martino al centro storico, con tanto di escursione termica (proprio nei giorni del “cambio di stagione”) di almeno 3-4 gradi.

Eppure, tenuto conto della concorrenza, e del concomitante impegno calcistico del Napoli (capace di rendere la città un deserto muto – tranne che al momento del gol – anche il sabato sera), anche quest’anno la risposta del pubblico è stata soddisfacente. E la cosa non può certo dipendere solo dall’ingresso gratuito. Lo zoccolo duro dei fedelissimi, lasciato crescere pazientemente nel corso degli anni, rappresenta ormai una garanzia, e accorre in sala (dopo le prime edizioni itineranti, la location è da qualche anno quella del Teatro Augusteo) per film che spesso parlano di grandi artisti internazionali che anche i napoletani più distratti hanno imparato a conoscere, vuoi per la loro presenza al museo MADRE, vuoi per le nuove stazioni del Metro dell’Arte o per le installazioni natalizie di Piazza Plebiscito.

L’inaugurazione del festival – 21 film in tutto, divisi in tre sezioni: Arte e Dintorni, Architettura, Fotografia – è toccata appunto a una vecchia conoscenza del pubblico partenopeo: la tedesca Rebecca Horn, di ritorno a Napoli dopo nove anni (sua l’installazione del 2002, le capuzzelle ispirate ai teschi del Cimitero delle Fontanelle), qui nelle vesti di filmaker a presentare Moon Mirror Journey, una sorta di viaggio attraverso le sue creazioni degli ultimi venticinque anni.

Uno dei fili conduttori di questa edizione è stato il rapporto tra arte e territorio: non si parla semplicemente di land-art, ma di riflessioni che accomunano diversi lavori: ne è un esempio il sorprendente e pluripremiato Waste Land di Lucy Walker, ambientato in Brasile, nella più grande discarica del mondo, dove il fotografo Vik Muniz offre alla gente delle favelas l’occasione di un riscatto sociale, e ricava – letteralmente – arte dalla spazzatura. Oppure The Year of Anish Kapoor (di Matthew Springford), una chiacchierata con l’artista indiano, col pretesto di una mostra personale allestita a Londra, che diventa il pretesto per vedere gli effetti di alcune delle sue installazioni in giro per il mondo.

Calate in un contesto metropolitano (Chicago), o in distese incontaminate (Nuova Zelanda), le sue opere sembrano UFO piovuti dal cielo, e finiscono per modificare indelebilmente il paesaggio circostante, in un gioco di specchi deformanti, riflessi di luce, illusioni ottiche che affascinano e spingono all’interazione tanto gli esseri umani quanto gli animali al pascolo. O ancora Kunstland di Michael Krass, su una serie di progetti (ultimo in ordine di tempo Exposure, una figura umana accovacciata alta 25 metri, dello scultore A.Gormley) realizzati in Olanda, nella provincia di Flevoland e nella sua area, bonificata e prosciugata negli anni ’30, ricacciando dal fondo del mare terreni ora fertili e coltivati.

Sarebbe comunque impossibile riepilogare tutte le pellicole della manifestazione, molte delle quali dedicate a personaggi di spicco nel panorama artistico contemporaneo (Marina Abramovic, Sol LeWitt, William Kentridge…). Come spesso accade, comunque, le più interessanti sono quelle che guardano al mondo dell’arte da una prospettiva insolita. È il caso di Herb & Dorothy, della giapponese Megumi Sasaki. La regista racconta la storia dei coniugi Herbert e Dorothy Vogel, collezionisti appassionati e maniacali. Pur avendo a disposizione mezzi limitati (lui impiegato alle poste, lei bibliotecaria), sono riusciti a mettere su una collezione imponente seguendo poche semplici regole: investire quando gli artisti sono ancora semisconosciuti, comprare opere di piccolo formato (“Devo riuscire a portarle a casa in metropolitana”, spiega Herb), essere sempre aggiornati sulle novità visitando tutti i musei e partecipando a tutti i vernissage, e tassativamente non vendere mai per profitto. In casa Vogel ogni spazio è occupato da opere d’arte, non c’è posto per armadi o divani (ma solo per gli amatissimi gatti), fino al 1992, quando la coppia decide di donare tutto il patrimonio alla National Gallery di Washington (scelta per due motivi: per statuto non può vendere le sue collezioni e non prevede un biglietto d’ingresso). C’è stato bisogno di cinque tir stracarichi per il trasporto. Attualmente Sasaki è impegnata nella lavorazione di un sequel. L’avventura dei Vogel infatti non è ancora finita: hanno ripreso forsennatamente a collezionare opere d’arte, e hanno deciso di donarne altre 2500, divise in pacchetti da 50, uno per un museo di ciascuno stato degli USA. Il film si chiamerà Herb & Dorothy 50×50. Appuntamento, chissà, alla prossima edizione.

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