La produzione irlandese Seaview, uno dei migliori documentari presentati al FORUM del festival di Berlino, è un esempio perfettamente equilibrato tra forma e contenuto. È un “documentario cinematografico”, così si dice, che riesce a comunicare non solo attraverso la storia che racconta ma anche attraverso ogni suo elemento espressivo. Come nel film messicano La frontiera infinita di Juan Manuel Sepúlveda, anche Seaview dei giovani registi Paul Rowley e Nicky Gogan racconta del dilemma degli immigrati clandestini che rischiano la vita con la speranza di trovare altrove una vita più sicura e vivibile. I migranti di Rowley e Gogan vengono dai luoghi più sofferenti del mondo: Congo, Uganda, Afghanistan, Croazia. Nonostante arrivino in Europa, si ritrovano imprigionati in una terra di nessuno, un ex villaggio turistico a nord di Dublino dove rimangono ad aspettare per anni prima di ottenere un permesso d’asilo.

È stata proprio l’aura di quell’ex paradiso, adesso abitato da rifugiati, a motivare i due registi a farne un film. Rowley e Gogan, provenienti da un background artistico, partono da un’esperienza estetica per mettere in scena un tema politico attualissimo. Hanno vissuto sul posto per tre anni, progettando media per i giovani e familiarizzando con la gente. A partire dal luogo già di per sé strano, che si può definire come l’inversione disperata di colonialismo e turismo, il film mette in scena lo stato d’attesa degli immigrati, contraddittorio e difficile da sopportare. Rimescolando i frammenti della realtà trovata sul posto – suoni originali, voci registrate, il quotidiano dei rifugiati, pensieri e paure pronunciate piano e con prudenza – i registi raccontano senza fretta e creano uno spazio evocativo, quasi benjaminiano, di memorie traumatiche e futuri insicuri, che lascia entrare piano lo spettatore in quel peculiare stato d’animo del rifugiato, che è quelo di “trovarsi tra i mondi”.

Soprattutto dalle interviste si comprende come i registi siano riusciti a entrare in contatto con i sentimenti più intimi degli immigrati: racconti e riflessioni, montate come commenti sulle immagini delle stanze svuotate, i campi verdi e la piscina colorata dell’hotel, sembrano essere introspezioni e ricordi. Rispecchiano l’universo sentimentale di persone che si trovano imprigionate tra speranza e paura, a cui è stato vietato di partecipare attivamente alla cultura e di arricchirla. Madri con i loro bambini, ex-giornalisti e rifugiati di guerra che entro uno-due anni parleranno quasi perfettamente l’inglese, hanno tutti sulle spalle un passato traumatico. Grati verso il paese che li ospita, non vedono l’ora di poter lavorare, ricominciare, dimenticare e soprattutto ridare quello che è stato dato loro. Solo il dieci per cento tra loro però, così ci informa il film, riceverà lo stato di rifugiato politico e il permesso di lavoro.

Seaview è un documentario che riesce ad evocare il vuoto di cui parla. Il vuoto di questa terra di nessuno ci fa capire che i clandestini, questo capitale umano invisibile, prima di poter arricchire la cultura viene sprecato una seconda volta.

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