In un giorno d’autunno, sotto l’ingresso a veranda esposto all’ombra di un vigneto californiano, un uomo di nome Miles bussa alla porta di una donna. Non sa se lei è in casa, se gli aprirà, se lo inviterà ad entrare. E’ un giorno in cui Miles ha smarrito già tutto: una carriera di scrittore di successo, il matrimonio, l’orgoglio di una madre, la fedeltà degli amici; ora può perdere l’ennesima occasione e con essa la riserva di autostima rimastagli, se Maya, la donna che dovrebbe essere all’interno della casa, non aprirà quella porta. Ma è anche il giorno in cui a Miles tutto questo non interessa più, perché il peso delle conseguenze già immaginate e realizzate da un singolo pensiero vuoto ed astratto, stavolta conta decisamente meno dell’istintivo coraggio di un’azione. Altrove, in una caustica camera d’ospedale, la cui finestra di vetro fa timida mostra degli assolati grattacieli di Honolulu, un cinquantenne di bella presenza compie anch’egli un moto coraggioso: davanti a lui su un letto di morte sta il corpo della moglie, di cui l’unico segnale di vita residuo è il battito del cuore. Quel corpo, in virtù di un pregresso testamento biologico, attende l’iniezione che arresterà anche l’attività cardiaca. Matt, questo il nome dell’uomo, parla alla donna e la rassicura: ora l’ha perdonata, nonostante sia andata a letto con un altro. Il tradimento è condonato, cancellato e assolto in ragione di un sentimento costruito nel tempo, e anche dell’eredità emotiva che, postumo, esso lascia agli altri.

In una camera silenziosa di un villino sormontato dal cielo grigio di Omaha, Warren, un uomo sulla settantina in pensione, abbandonato dai suoi affetti dopo la morte della moglie e il matrimonio della figlia emigrata in Colorado, è seduto alla scrivania a leggere una lettera. Il mittente è una suora missionaria che gli scrive che il bimbo senegalese, che egli ha scelto di adottare a distanza, grazie al suo contributo sta bene e ora può permettersi perfino di studiare. Alla lettera è allegata una foto del bimbo, e dei suoi occhi grati. A quella vista Warren esplode in un pianto silente, riscoprendo di colpo, pur in una dimensione di perdita dolorosa, la connessione con le emozioni mai attivata nel settantennio precedente. Sull’orlo di un marciapiede di una misera cittadina in bianco e nero del Nebraska sta seduto Woody, un anziano signore gretto e alcolizzato, magro e malandato, stanco e ormai rassegnato a perdere un fantomatico premio della lotteria cui si è dato alla ricerca da parecchie ore lungo le desolate terre del Nord-Ovest. Il figlio David, che lo accompagna nel viaggio, è in piedi davanti a lui e gli dice che è tutta un’illusione, che quel biglietto della lotteria che ha in mano è fasullo. Il padre guarda nel vuoto e al contempo, al pensiero della sua morte incombente, ribatte: “Ma io volevo lasciarvi qualcosa…”, uscendo così improvvisamente dall’archetipo di egoismo, rudezza e cinismo che fino ad allora aveva simboleggiato il suo sé, e recuperando l’amor altrui se non, soprattutto, il proprio.
“A chi s’identifica con un punto di vista intellettuale, il sentimento si fa a volte incontro con ostilità sotto forma di Anima”, così nell’ “Aion” scriveva Carl Gustav Jung oltre sessant’anni fa. Sentimento e ragione, emozione e regola, dubbio e determinismo. E’ nell’alveo di questa irrisolta duplicità che si stagliano i quattro personaggi maschili principali del cinema di Alexander Payne: dal Jack Nicholson alias Warren Schmidt in A proposito di Schmidt, passando per il Paul Giamatti nei panni di Myles Rayomond in Sideways, continuando col George Clooney nelle vesti di Matt King in Paradiso amaro, terminando nel Bruce Dern versione Woody Grant in Nebraska. Quattro uomini, figure ed interpreti del tutto diversi tra loro per presenza scenica, età anagrafica – Woody ha un fisic du role decisamente più malandato del comunque poco meno anziano Warren – e storia individuale del personaggio. Ciascuno di loro è però un uomo obbligato dagli eventi al cambiamento se non all’auto-rivoluzione, senza dubbio da un punto di vista materiale ma certamente anche da quel che concerne la propria sfera interiore. Warren, Myles e Matt hanno perduto, prima ancora in senso lato che fisico, una compagna di vita, ovvero l’oggetto e al contempo il soggetto principale del loro eros, Woody invece ha ufficialmente ancora una moglie ma ora, al crepuscolo della sua esistenza, ha imparato a detestarla e a rappresentarla, più a torto che a ragione, come la causa primaria della sua infelicità. Al figlio che gli domanda “Perché bevi così tanto, papà?” lui, in una sorta di auto-rivelazione più che di confessione, risponde: “Berresti così anche te, se fossi sposato con tua madre”. A proposito delle principali figure femminili incontrate nella vita, Jung osservava che sovente l’uomo, inteso letteralmente come maschio, tendeva a reprimere gli aspetti femminili della sua personalità relegandoli nella sfera inconscia

Questo processo determinava l’origine di un complesso psichico chiamato complesso dell’anima, in ragione  del quale l’uomo proiettava il suo ideale controsessuale, relegato appunto ad uno stato non-cosciente, sulle donne incontrate nella vita reale, partendo dalla madre per arrivare alla moglie. L’idealizzazione della donna, appunto prima madre e poi moglie, altro non era che il rifiuto del maschio del riconoscimento autonomo delle proprie insite caratteristiche femminili e l’incapacità pressoché assoluta di contatto e dialogo con le stesse, il che non faceva che trasformare i contenuti potenzialmente vitali ed attivi dell’individuo in elementi coatti, subdoli e lontani dalla consapevolezza in primis di se stessi.

La perdita, il ridimensionamento, lo svelamento o, più precisamente, l’umanizzazione della figura femminile che aveva accompagnato gran parte della sua vita ha un duplice effetto sull’uomo di Payne: da un lato infatti ne determina la crisi di quello che Jung definisce Animus, l’archetipo maschile, che è sì logos, ponderatezza, riflessività ma, se non equilibrato dal contributo dell’archetipo femminile, l’Anima, diviene asimmetrica morale confinata a preordinare ciò che deve e non deve essere fatto, inducendo così all’involuzione dell’individuo; si riduce ad essere il risultato di immagini reminiscenti legate all’infanzia e prive di coscienza; finisce col distribuire opinioni e pareri trascorsi che, svuotati di ogni sostanziale contenuto, vengono riformulati come sentenze fredde e fallaci. Altresì l’umanizzazione dell’idea del femminile costringe l’uomo a prendere contatto col suo inconscio e con le imago famigliari delle quali esso è impregnato, ad uscire dal suo stantio guscio raziocinante, ad attivare i meccanismi autonomi della propria identità, a far emergere il suo autentico lato femminile fatto di ipersensibilità, malinconia e cura degli altri, a privilegiare, infine, le emozioni e le relazioni, ovvero tutto ciò che Jung non definisce bensì riferisce al concetto della cosiddetta obiettivazione dell’Anima. Payne affida sempre la scoperta del proprio sé femminile all’on the road, ai viaggi, alle immagini di camper,  fuoristrada, utilitarie o macchine sportive inghiottite da autostrade sempre uguali a se stesse, oppure accolte da viuzze che si inerpicano su colline di vigneti, o ancora assorbiti da litoranee tortuose di atolli verdeggianti; il percorso non è mai solo di piacere, perché si tratta di lunghi viaggi per partecipare a matrimoni che non si vorrebbero mai celebrati; perché gli addii al celibato si trasformano in ravvedimenti e rimpianti per una presunta libertà in estinzione; perché il viaggio è anche una battuta di caccia per stanare l’identità e la residenza dell’amante della propria moglie; perché il posto dove regalano un milione di dollari è a mille miglia di distanza, ma il biglietto della lotteria che si ha in mano è soltanto una trovata pubblicitaria. Alla conclusione dell’esodo, qualcosa cambia negli artefici di esso.

Si è camminato nel canale tra conscio ed inconscio che forse il viaggio potrebbe voler rappresentare, e la consapevolezza raggiunta di una solitudine esistenziale e non, responsabilizza l’uomo, lo obbliga, o meglio lo spinge a pensare anche in funzione degli altri. Lo umanizza o, per tornare ancora al riferimento junghiano, lo istiga a considerare l’Anima come interlocutrice principale nella soluzione dei propri conflitti personali. Sotto la prospettiva appena presentata, può spiegarsi meglio l’illuminazione di Warren Schmidt in riferimento alla consapevolezza acquisita del tempo perduto e l’assenza di tracce lasciate nel mondo come quando, in un dialogo interiore durante il suo viaggio verso Denver, egli si domanda: “Lo so, siamo tutti ben poca cosa di fronte all’Universo e suppongo che il massimo che uno possa sperare è di fare qualche volta la differenza. Ma io quando mai ho fatto la differenza? C’è una cosa al mondo migliorata grazie a me?” o ancora, in riferimento all’acquisita coscienza di un nuovo sé che depone le armi all’arrendevolezza e al fatalismo, come si evince in una lettera indirizzata al figlio adottivo, in cui Warren scrive: “La vita è breve, Ndugu, e io non posso permettermi di sprecare ancora un minuto di pi&ugrave Allo stesso modo diventa speculare la frase rivelatrice sul vino – e metaforicamente su un nuovo atteggiamento verso la vita e sul conseguente rinnovamento interiore – che Maya pronuncia al cospetto di un Miles spaventato e insieme recettivo: “Mi piace che il vino continui ad evolversi. Mi piace pensare che se apro una bottiglia oggi, avrà un gusto diverso da quello che avrebbe se la aprissi un altro giorno”. L’Anima junghiana ha un’accezione e un topos femminili, è quindi secondo Jung intrinseca alla natura sessuale della donna. Dunque, diventa fisiologicamente necessaria l’ispirazione di una figura femminile con un’Anima consapevole, affinché l’uomo possa riappropriarsi della propria, celata nell’inconscio del suo controsessuale.

L’imprescindibilità della donna in quello che Jung chiama processo di individuazione dell’uomo, si ritrova anche nella dichiarazione immaginaria che Matt fa alla moglie in fin di vita. “Se lo stai facendo per catturare la mia attenzione, Liz, sta funzionando. Ora sono pronto, sono pronto a parlare, sono pronto a cambiare. Sono pronto ad essere un marito  vero e un padre vero. Basta che ti svegli. Ti prego Liz, svegliati ora”. L’ispirazione è qui privativa, scaturisce ovvero dal senso imminente di perdita della propria compagna di vita. Non per questo a tale processo va obbligatoriamente attribuita un’accezione negativa, bensì qui l’assenza potrebbe essere intesa come impulso e stimolo alla de-idealizzazione e, poi, alla catartica umanizzazione della figura femminile di riferimento. La riscoperta delle emozioni nel maschile potrebbe rappresentare una preziosa eredità per le generazioni che verranno, nella convinzione propositiva che le coscienze dell’oggi soggiogate dall’Animus, si riequilibrino nell’Anima in quelle di domani. Se davvero si crede nel cinema e almeno in una parte di ciò che esso rappresenta, non si può dubitare che certe alchimie possano accadere. Come è il caso di Woody e di David, che al ritorno dal loro viaggio in Nebraska alla riscoperta dell’uno con l’altro, si danno il cambio alla guida di quel furgoncino che altro non è che il primo premio dell’insperata lotteria, e poco importa quanto esso sia fittizio o meno. Perché ora che gli ha tramandato qualcosa di finalmente concreto, ora che egli ha condotto il furgone attraverso il paese dei suoi ricordi, verso la strada di casa il padre può lasciare in eredità il volante al figlio e intanto sedersi lui sul lato passeggero a lasciarsi guidare in tranquillità. Finalmente senza più alcuna paura del futuro.

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