[***] – Affonda nelle pieghe dell’anima, per svelare qualcosa che sta sotto la superficie, Alza la testa di Alessandro Angelini. Il regista romano è ritornato in Concorso con la sua opera seconda al Festival di Roma, facendo vincere come quattro anni fa, il Premio come Miglior attore al suo inteprete protagonista. Quattro anni fa con L’aria salata, era toccato ad Antonio Colangeli (che tra l’altro ritroviamo anche in questo film), quest’anno è stata invece la volta di Sergio Castellitto. Al di là dei premi, sicuramente Angelini ha passato a pieni voti il difficile esame dell’opera seconda che aspetta sempre al varco i registi esordienti.

La storia racconta di Mero (un Sergio Castellitto in grandissima forma) operaio in un cantiere nautico, personaggio puro nella sua ruvidezza, che vive le situazioni senza filtri e calcoli. Il centro e il senso della sua vita è il figlio Lorenzo (l’esordiente Gabriele Campanelli, sicuramente da tener d’occhio) che scopriamo aver cresciuto praticamente da solo e che allena in maniera quasi ossessiva alla boxe. Angelini non ha paura a stare addosso ai personaggi con la camera a mano (alla Dardenne), per seguirne i movimenti, e restituirci la carnalità, la sincerità e la loro affettività. Mero è personaggio complesso e contraddittorio, si sente in credito con la vita, sempre a dannarsi per mettere a posto le cose, sempre a tentare di riscattarsi. Il rapporto padre/figlio è un rapporto materno esclusivo: Mero vede in Lorenzo quello che non ha avuto, lo ama incondizionatamente, lo protegge (continuamente gli ripete di prendersi cura di se stesso), vorrebbe che diventasse quello che lui in gioventù non è riuscito ad essere, vorrebbe in esclusività il suo affetto… Mero ha paura di rimanere solo, perché ha combattuto con la vita, ma ne è uscito a testa alta… E quello che insegna è ad alzare la testa, per guardare in faccia l’avversario, la vita… Il rapporto padre e figlio è raccontato con una profondità e leggerezza eccezionali, grazie all’uso sapiente dei movimenti della mdp, ai dialoghi, alla bravura degli attori che trattengono ogni rischio di andare sopra le righe.

L’espressione del dolore infinito che caratterizzerà la seconda parte del film, per la perdita più grande che Mero potesse avere, è resa con tocchi minimi dell’espressione facciale, un gesto (il capello del figlio trovato sulla sciarpa), una ruga, un’espressione dell’occhio. A questo punto come il sentiero della vita, cambia percorso e registro: Mero non si ferma davanti all’ennesima prova della vita e va avanti, superando nuovi pregiudizi, rimettendosi in gioco in una continuo bisogno di non rimanere solo. Attraverserà l’Italia da Nord a Sud in un viaggio che è dell’anima: incontrerà Sara (una bravissima Anita Kravos) in una risalita verso la vita. Attorno a Mero vive, di pennellate veloci, ma efficaci, la società in cui viviamo: da un lato Mero lavora con operai rumeni, di uno è amico, e va anche al suo matrimonio, albanese è la donna che ha amato e che non perdona per averlo lasciato e, dall’altro, ha un atteggiamento quasi razzista verso Ana, la ragazza rumena di cui s’innamora il figlio. Angelini tocca temi forti e importantissimi come la donazione degli organi, la transessualità, l’immigrazione clandestina… Tutti concentrati nella parte finale del film: davvero troppi per dare verosimiglianza e credibilità finendo così per rovinare i primi tre quarti perfetti.

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