Killing Time- Entre deux fronts di Lydie Wisshaup-Claudel è il vincitore del prestigioso Grand Prix du Réel della 34ma edizione del Cinéma du Réel, appuntamento imprescindibile del cinema documentario, tenutosi al Centre Pompidou dal 19 al 29 marzo.

Degno successore di una serie di documentari essenziali premiati in precedenza come – solo per citarne alcuni –  Below sea level di Gianfranco Rosi (2009), 48 di Susana de Sousa Diaz (2010), Palazzo delle Acquile di Stefano Savona (2011) e ancora Autrement la Molussie di Nicolas Rey (2012) o Iranien di Mehran Tamadon l’anno scorso, Killing Time é un film notevole, capace di associare una tematica forte – come l’esplorazione dello stato mentale ed emotivo dei giovani soldati americani e delle loro famiglie che vivono in una cittadina vicina a una base militare sperduta nel deserto californiano seguiti fra una missione e l’altra- con un raro rigore: rigore nell’approccio del soggetto, nella composizione delle scene e nella struttura della narrazione. Senza voler giudicare a priori e senza avere l’intenzione di creare un documentario ostentatamente militante, la regista riesce, attraverso il suo punto di vista partecipe e perspicace, a costruire un racconto denso di emozione. Avvicinandosi agli sguardi, scrutando i gesti, osservando le ferite – visibili ed invisibili- attardandosi sulla superficie della pelle di questi giovani uomini Lydie Wisshaupt-Claudel ci propone una materia viva e pulsante delineando i tratti porosi di un universo in bilico fra dovere e apprensione, fierezza e dolore, senso dell’onore e angoscia. Killing Time ci coinvolge profondamente proprio attraverso il suo pathos calibrato, il senso della giusta misura, l’osservazione precisa e sensibile di atti e rituali del quotidiano. Spingendosi fra gli anfratti più reconditi dell’anima dei soldati Lydie Wisshaupt-Claudel crea un tessuto d’immagini vibranti di umanità che ci tocca profondamente e ci invita alla riflessione.

Ho incontrato la regista al Cinéma du Réel poco prima dell’annuncio del Palmarés e sono stata piacevolmente sorpresa di scoprire che dietro una tale determinazione e maturità creativa  si cela una ragazza giovane, delicata e sorridente. Nonostante la comprensibile eccitazione del momento Lydie Wisshaupt-Claudel si è prestata, disponibile ed aperta, ad una lunga conversazione sulla genesi e la costruzione del suo film.

Qual é l’origine di questo progetto? Come ti é venuta l’idea di recarti – pur essendo francese – in un luogo così lontano e particolare come la cittadina di 29 Palms, in pieno deserto californiano?  

La mia storia con gli Stati Uniti risale già a qualche tempo fa: a 18 anni, nell’ambito di uno scambio scolastico, sono andata a vivere per un anno sulla costa est del paese. Ho abitato con due famiglie diverse di cui una esigeva da me che andassi in chiesa ogni domenica… Durante il mio soggiorno mi sono inoltre resa conto che l’esercito era particolarmente presente nella vita quotidiana della gente. Con stupore avevo scoperto che c’erano dei poster e dei gadget legati a quest’universo un po’ dappertutto nelle case delle persone che frequentavo. A quell’epoca andavo al liceo e mi ricordo che tutti i giorni in mensa c’erano degli ufficiali dell’esercito che venivano per abbordare i ragazzi di 18 anni che non avevano né i mezzi finanziari sufficienti né una borsa di studio per andare all’università. Cercavano di simpatizzare con loro con lo scopo di convincerli che, nella loro situazione, l’esercito sarebbe stata un’ottima opzione e che avrebbero fatto bene ad arruolarsi. Questa è stata la mia prima esperienza con l’esercito americano.

Cercando di capire quali possano essere le ragioni per le quali dei ragazzi decidono di arruolarsi, ci si rende conto che spesso non avrebbero avuto molte altre alternative…

Sì, in effetti, questo è il caso di molti eserciti di coscrizione nel mondo, ma non bisogna dimenticare che c’è anche un altro fattore, quello dello status sociale: diventando un soldato negli Stati Uniti si accede ad uno status sociale di grande rispetto. Questa prospettiva rappresenta una tentazione considerevole per i ragazzi che decidono di arruolarsi e poi per loro si tratta, in fin dei conti, dell’opportunità di viaggiare, di vedere il mondo, di partire all’avventura. Ho scoperto tutte queste cose per la prima volta nel 1998-99, in quel periodo gli Stati Uniti non erano, propriamente parlando, in guerra ma stavano “semplicemente” effettuando dei bombardamenti nel Kosovo. Ricordo di avere già pensato allora di trovarmi in un posto in cui chi si arruola può morire. In seguito, invece, il paese é davvero entrato in guerra: nel 2001-2002 in Afghanistan e nel 2003 in Iraq. Mi sono allora resa conto che dei ragazzi che avevo conosciuto e che si erano arruolati erano forse stati mandati al fronte. Di colpo, la guerra vera e propria era entrata a far parte della vita quotidiana delle famiglie che avevo incontrato. Questo pensiero non mi ha più lasciato; avevo l’impressione di non avere ancora concluso la mia storia personale con gli Stati Uniti.

Nel frattempo hai deciso di studiare cinema…

Sì, ho studiato montaggio al’INSA di Bruxelles ma durante i miei anni di formazione non ho avuto la voglia o l’intenzione di fare un film, questo bisogno è nato più tardi. Mi era rimasta, come dicevo prima, la curiosità di ritornare negli Stati Uniti per cercare di capire alcune cose; m’interessava interrogare gli Americani sulla loro identità nazionale e sul loro concetto di patriottismo, dei valori con cui io, che sono francese, non riesco assolutamente ad identificarmi.

Così ho fatto un secondo viaggio nel 2008, un’epoca che ritengo decisiva per tre ragioni concomitanti: l’elezione di Obama, la crisi economica e il fatto che il paese fosse in guerra ormai da molto tempo.

Quali esperienze hai fatto durante questo secondo viaggio negli Stati Uniti?

Il mio compagno ed io abbiamo percorso in tre mesi tutta la costa ovest filmando i nostri incontri casuali con degli Americani lungo il nostro cammino. Da questo materiale ho poi tratto il mio primo film: Sideroads (2012). Inoltre, nel corso di questo lungo viaggio, avevo visto sulla carta stradale delle zone militari nel sud della California, in pieno deserto e mi ero subito detta: “Ho voglia di andare laggiù per vedere un po’ di cosa si tratta, giusto per dare un’occhiata!” Così abbiamo fatto una deviazione e siamo rimasti per due giorni a 29 Palms: lì abbiamo incontrato il tatuatore che si vede in una lunga sequenza in Killing Time, abbiamo  simpatizzato all’istante e abbiamo girato con lui un paio di scene che si vedono in Sideroads.  Mi sono resa conto che in quel luogo c’era molto di più da osservare e da raccontare: cos’è, cosa significa la guerra in seno alla società civile? Com’è possibile che queste due dimensioni – pace e guerra – coesistano in questa città così particolare?  Sono queste le domande all’origine di Killing time.

In Killing Time hai saputo concentrare la tua attenzione su un luogo ben preciso – la cittadina di 29 Palms – e su un periodo temporale altrettanto ben definito: il tempo fra l’arrivo dal fronte e una nuova partenza per il fronte. Il tuo film ci coinvolge in pieno, proprio perché nasce da un qualcosa di concreto, non da un’idea astratta…

In effetti, non sono partita da una teoria, ma da una serie di sensazioni forti scaturite dal luogo stesso. Arrivando a 29 Palms, una città circondata dal deserto, arida e ardente nel bel mezzo del nulla, ho avuto l’impressione di trovarmi proprio in Afghanistan! Non sembra vero che proprio questo sia il posto dove i soldati arrivano e sono stazionati fra una missione e l’altra. “Ma come fanno?” mi sono chiesta? “Cosa pensano, come si sentono?” Nella cittadina di 29 Palms dovrebbero riposarsi, fare una sosta, forse riuscire per un po’ a pensare ad altro, ma questo sembra impossibile: basta alzare la testa e si vedono degli elicotteri militari volteggiare nel cielo. Dietro la montagna c’è una base militare in cui i soldati si preparano e si esercitano di continuo per cui il suono delle bombe fa parte del sottofondo sonoro costante di 29 Palms. Un marine ci aveva detto che questo posto somiglia a quelle porte che girano perennemente su se stese: una trappola, in altre parole. Volevo che si capisse velocemente la nozione di ciclicità: le giornate si susseguono sempre con lo stesso ritmo e gli stessi rituali, le settimane si susseguono una uguale all’altra, degli uomini arrivano e ripartono in una lunga litania senza fine, transitano nel film come transitano in questa città che non potrà mai diventare la loro città ma è piuttosto una sorta di prigione in cui una volta entrati finiscono per diventarne prigionieri.  

Il tuo film è un film “di pelle”; perché hai deciso di focalizzare il tuo sguardo su questo elemento che esplori in varie sequenze e non solo nel corso delle sedute di tatuaggio?

Anche questa è stata una scelta che non ho fatto a priori, ma un qualcosa che ho sentito poco a poco lavorando sulle immagini e guardando ogni giorno le riprese. Ben presto mi sono resa conto che bastava osservare i volti, i corpi per capire come si potesse costruire il ‘personaggio-tipo’ di un soldato che parte in guerra; di fatto non c’era neanche bisogno di vederli in uniforme per capire chi fosse un militare e chi no. Pur avendo pienamente coscienza che tatuarsi non risolverà il loro problema, il tatuaggio è per i soldati un modo per esorcizzare la morte. Per questi uomini il loro corpo è uno strumento di lavoro ma è anche, in un certo senso, una corazza. Nel quotidiano s’impongono di non mostrare nulla, di non lasciare trapelare niente all’esterno; questo permette loro di proteggere la loro intimità ferita, di affrontare la situazione e di andare avanti, di svegliarsi giorno dopo giorno e di trovare la forza di ritornare al fronte. Allo stesso tempo la loro pelle è quanto hanno di più fragile e vulnerabile perché, una volta che sono laggiù a combattere, non può proteggerli; é la loro pelle ad essere toccata per prima quando una pallottola li colpisce… Il tatuaggio infine è anche un modo per contare i propri morti; la pelle deve resistere ai colpi dell’esperienza vissuta e deve potere essere testimone di quest’esperienza.

Le sequenze dal tatuatore e quelle dal parrucchiere sono, a mio avviso, dello stesso ordine; il modo in cui filmi un gesto così quotidiano come quello di lavare una testa, mostra tutta la fragilità di questi uomini. Gran parte della suggestione di queste scene proviene anche dal suono che le accompagna. Qual è il ruolo del suono nel film?

In Killing Time il suono è lo spazio del fuori campo; quello dell’intimità da un lato e quello della guerra dall’altro. Attraverso il suono cerco di entrare nella soggettività dei personaggi ed in qualche modo anche di lavorare sull’empatia,  una cosa che non è per nulla scontata; io stessa iniziando questo progetto mi sono spesso domandata come questi uomini possano essere pronti a partire in guerra e, potenzialmente almeno, ad uccidere.Una delle grandi qualità di Killing Time consiste nella tua capacità di mantenere sempre la “buona” distanza dalle persone che filmi; il tuo approccio sensibile e pacato crea dell’empatia senza mai invadere lo spazio dell’altro e c’invita alla riflessione. Come hai proceduto?

Tutto ciò, direi, è il risultato di un aspetto molto concreto del nostro lavoro d’equipe, è un qualcosa che io stessa riesco a formulare e a capire solo adesso: credo che nessuno dei tre ragazzi che hanno lavorato con me -il cameraman, l’ingegnere del suono e l’assistente- abbia mai giudicato i soldati. Non c’è mai stato un giudizio morale nei loro confronti; questa è una cosa fondamentale.

Concretamente, come avete lavorato a 29 Palms? Come siete riusciti ad abbordare le varie persone che vediamo nel film?

Il nostro punto di partenza sono stati i commercianti; siamo entrati in vari negozi spiegando succintamente il nostro progetto, non c’era bisogno di entrare nei particolari- una volta che ci siamo guadagnati la fiducia dei commercianti, le cose si sono messe in moto in modo naturale; circa l’80% dei giovani uomini che entravano nei negozi ci davano il loro accordo per essere filmati. Ovviamente c’erano anche delle persone che non vedevano di buon occhio la cinepresa, che erano diffidenti e che non volevano avere niente a che fare con noi,  poi c’erano   delle persone diffidenti ma allo stesso tempo curiose di sapere cosa stavamo facendo. Siamo stati a 29 Palms due volte di seguito, ogni volta per un mese, in una specie d’immersione totale. 29 Palms è una piccola cittadina dove ci s’incrocia di continuo; la gente che ci vedeva tutti i giorni per strada a filmare ha incominciato ad abituarsi alla nostra presenza e alla fine anche noi facevamo parte dell’ambiente locale. Da un certo punto in poi la gente ha iniziato ad abbordarci dicendoci: “Ho sentito parlare di voi, del vostro lavoro !” Alla fine non avevamo neanche più bisogno di spiegare cosa stessimo facendo; le persone si sentivano a loro agio.  

Passata questa prima fase, alcune persone hanno accettato la vostra presenza anche durante delle situazioni più private aprendovi le porte delle loro case e delle loro famiglie…

Dai commercianti le varie situazioni in cui ci siamo imbattuti ci hanno richiesto pochissimo tempo prima che potessimo iniziare a filmare, ma per  quanto riguarda le famiglie l’approccio è stato in effetti più complesso; non appena si entra nella sfera privata delle persone le cose cambiano… Ci siamo sempre recati da loro almeno un giorno prima di iniziare a girare per fare conoscenza con tutti quanti, discutere un po’ ed incontrare i bambini. Le donne e soprattutto le mamme ci domandavano : “Ma di cosa si tratta esattamente? Chi vi finanzia? Siete degli studenti? Chi siete?”

Qual è stata la più grande difficoltà che hai dovuto affrontare nel corso di questo progetto?  

Le vere difficoltà sono iniziate dopo le riprese, in fase di montaggio, quando ho dovuto affrontare la costruzione della narrazione!

Le riprese sono invece state molto più dure per i membri della mia equipe che erano  tutti e tre dei ragazzi; essendo una donna penso di essere riuscita più facilmente ad identificarmi con i personaggi, ma per loro questo processo non aveva nulla di scontato. Dirsi per esempio: “Ho trascorso una serata intera con un tipo che ha la mia età e che di fatto ha ucciso delle persone; non riesce più a dormire di notte ma domani ritorna a combattere!” Oppure: “Non riesco ad essere d’accordo con questa persona, non potrebbe mai essere un mio amico e, nonostante tutto,  abbiamo passato del tempo a discutere!” Questo tipo di cose parevano loro impossibili ma avevano voglia che fossero possibili…

Come si é svolto il montaggio? Avevi già dall’inizio l’idea di strutturare il racconto fra un arrivo dal fronte ed una partenza per il fronte ? Nel film quest’arco narrativo è delineato in una maniera talmente sottile da non risultare evidente di primo acchito.

Il montaggio é durato un’eternità; avevo circa un centinaio d’ore di materiale, ma essendo montatrice di formazione ed avendo da sempre lavorato in digitale, sono abituata a questa mole d’immagini. Ammetto di avere avuto, al principio di questo progetto, delle velleità di continuità ma quello che è successo durante le riprese è stato talmente diverso dalle mie aspettative che ho dovuto ricominciare tutto da zero. Nonostante ciò avevo delle grandi linee in mente: la nozione di ciclicità mi sembrava  essenziale, così come pure l’idea del ritmo infernale di cui sono prigionieri questi soldati. La mia co-montatrice ed io ci siamo, in un primo tempo, lanciate su una struttura che immaginavo molto più chiara e ripetitiva ma alla fine abbiamo constatato che finivamo per perderci… abbiamo quindi iniziato a togliere delle cose e abbiamo continuato a farlo fino ad un punto in cui ci siamo rese conto che se fossimo andate oltre, avremmo perduto l’anima del film. Ci siamo quindi lanciati sull’idea di un ‘disordine molto organizzato’ ma pur sempre del disordine; togliendo varie cose e risistemando il materiale per arrivare- nonostante tutto- a questa linea narrativa che esiste fra le righe. Il lavoro è stato un andirivieni costante con una grande interruzione di un anno in cui è nata mia figlia. Dopo questa lunga pausa, quando mi sono rimessa a lavorare, l’ho fatto con uno spirito nuovo, soprattutto nelle scene dedicate alle famiglie.  

In effetti, una delle sequenze più toccanti del film, é quella in cui un marine che si trova al fronte parla con la sua famiglia su Skype e si mette a piangere quando vede sua figlia camminare per la prima volta. La presenza- assenza di quest’uomo sul piccolo schermo di un computer nel bel mezzo di una vivace riunione di famiglia ha un carattere quasi spettrale. A ben vedere, 29 Palms è una specie di purgatorio…

Mi fa piacere che tu ti riferisca al purgatorio, perché avevo proprio quest’immagine in mente lavorando sul film !

Quali sono state per te le soddisfazioni  di questo lavoro?

Senza dubbio gli scambi con la gente, l’esperienza umana. Non avrei mai immaginato di riuscire a tessere dei legami così forti con le persone che ho incontrato a 29 Palms. Diciamo che speravo di sì, pur dovendo ammettere che mi risultava molto difficile a priori immaginare che potesse nascere un’amicizia fra me e qualcuno che parte volontariamente in guerra. Evidentemente a questo punto sorge l’eterno dibattito: “ Ma vogliono veramente fare la guerra, tutti questi ragazzi?”. Spesso si ritrovano laggiù per una serie di ragioni diverse ma, dal momento in cui si sono ingaggiati in poi, sono per forza di cose condizionati a “volere” fare quello che fanno e per riuscirci nel migliore dei modi devono “spegnere”, per così dire, la loro resistenza interiore, la voce della coscienza che potrebbe sussurrare loro: “Forse non è giusto quello che faccio!”. Una volta partiti in missione i marine spengono l’interruttore mettono tutti i loro pensieri in una serie di compartimenti stagni. I veri problemi iniziano quando non sono più in missione; di colpo tutte queste caselle iniziano a fare acqua e, ad un certo punto, esplodono. Ho l’impressione che i ragazzi che soffrono di stress post-traumatico – i sintomi si presentano di regola un anno circa dopo il loro ritorno – siano di fatto quelli più sani di spirito; quelli che sentono il contraccolpo delle loro azioni, del loro vissuto, che devono assumerlo, affrontarlo ed imparando a vivere con questo fardello.

Per la produzione del film hai potuto contare su degli appoggi molto seri e consistenti come quelli di Arte, del CNC e del Centre Belge de l’audiovisuel: come sei riuscita ad ottenerli ?

Sinceramente, ancora oggi, non posso crederci ! Lavorare sotto queste condizioni é stato veramente meraviglioso. Tutto ciò ha richiesto parecchio tempo ma mi ha permesso di collaborare con della gente che conosco molto bene dall’epoca della scuola di cinema, l’INSAS a Bruxelles. Mi sono ritrovata con persone della mia generazione con cui sono sulla stessa lunghezza d’onda per cui mi sono sentita perfettamente libera ad ogni istante. Penso che questo sia fondamentale e non riesco ad immaginarmi di lavorare in un modo diverso.

Hai già dei nuovi progetti in cantiere?

Dei piani veri e propri direi di no, ma delle cose che m’interessano e mi appassionano certamente sì! Sento che il mio rapporto con gli Stati Uniti non si é ancora esaurito, penso che ci siano ancora molte cose da esplorare in questo paese con cui sento di avere un rapporto privilegiato anche attraverso la lingua che parlo bene e che mi permette di abbordare facilmente la gente.

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