Nel tepore di un pomeriggio soleggiato di settembre, il grande evento dell’Athens International Film Festival (che si è tenuto dal 18 al 29 settembre) è la venuta di Adèle Exarxopoulos, giovane eroina La Vie d’Adèle di Abdellatif Kechiche, Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes. Adèle Exarchopoulos, che ha un cognome innegabilmente greco, sta visitando la Grecia per la prima volta: affronta una sala strapiena di giornalisti e fotografi sovraeccitati raccontando con molto brio, e non solo di circostanza, del suo cognome, legato al bisnonno greco arrivato in Francia e sposatosi con una ragazza francese; un uomo enigmatico che un giorno disse ai suoi che sarebbe andato a comprare un pollo e poi scomparve per sempre…

Con Adèle Exarxopolos una brezza fresca soffia negli occhi e nei cuori degli spettatori dell’Athens International Film Festival, un festival di cinema indipendente giunto felicemente, e nonostante tutte le difficoltà economiche e politiche di questi ultimi anni, alla sua 19esima edizione. L’incendio e la distruzione completa della sede storica del festival, il cinema Attikon, nella notte del 13 febbraio 2012 durante le proteste contro il voto del Parlamento in favore del piano di rigore della troika, avevano rischiato di decretarne la fine.

Adèle parla alla stampa il 18 settembre, un giorno dopo l’omicidio a freddo di Pavlos Fyssas un rapper ateniese simpatizzante di sinistra da parte di un membro del partito di estrema destra Alba Dorata, una coincidenza che non lascia indifferente la giovane attrice. Sorridente, spigliata, sicura di sè, disinibita e molto sveglia, Adèle non si lascia destabilizzare da nessuna domanda. Ma soprattutto parla del suo lavoro con Kechiche che le è valso una meravigliosa ricompensa: la Palma d’Oro al festival di Cannes, per la prima volta nella storia del festival, attribuita non solo ad un regista, ma anche alle sue due attrici protagoniste Adèle Exarhopoulos, appunto, e la splendida Lea Seydoux.

L’eroina che impersoni nel film difende il diritto dell’individuo all’autodeterminazione, tu cosa ne pensi del tuo personaggio?

La vie d’Adèle è in primo luogo una storia d’amore: è una storia d’amore che abbiamo cercato di costruire con Abdel (Abdellatf Kechiche). È un film sul risveglio amoroso, sui primi sentimenti e le prime esperienze. È proprio questo che amo nel cinema di Abdel, il fatto che parta da una storia comune, da un semplice incontro e racconti come, e fino a che punto, questo possa sconvolgere la tua vita. Detto questo penso che il nostro scopo comune, quello di Lea (Lea Seydoux), di Abdel ed il mio, fosse quello di far sì che il pubblico dimenticasse, da un certo punto in poi, che si trattava di due donne e che fossero i sentimenti a passare in primo piano e a diventare molto più importanti del sesso. Tutto questo si è venuto a costruire con il tempo, noi non siamo partiti con l’idea di fare un film apertamente militante: il nostro impegno si esprime piuttosto attraverso la scelta dei personaggi ai quali il film vuole rendere giustizia. Il caso ha voluto che il periodo in cui noi abbiamo vinto la Palma d’Oro a Cannes sia coinciso con quello in cui è entrata in vigore la legge sulla liberalizzazione del matrimonio omosessuale in Francia (vedi nota); è stata una bellissima coincidenza che ha superato ogni nostra aspettativa! Francamente se io faccio del cinema è perché mi pongo delle domande e voglio imparare delle cose nuove, sono quindi contenta se questo film può aiutare a cambiare delle mentalità.

Spero che di fronte ad un’opera così lunga – il film dura quasi tre ore – gli spettatori si lascino portare e accettino di seguire sullo schermo un frammento di vita in cui i sentimenti s’impongono e  l’amore vale la pena di essere vissuto.

(Nota: la legge è stata convalidata dal Consiglio costituzionale ed è entrata in vigore il 17 maggio del 2013)

Kechiche mira sempre a raggiungere il massimo grado di naturalezza possibile nella recitazione. Come sei riuscita a rispondere a questa sua esigenza?

Conoscevo il cinema di Abdel già prima di lavorare con lui: ho sempre amato l’atmosfera dei suoi film in cui si parla di cose quotidiane, della famiglia, di gente comune. Il suo genio consiste appunto nel prendere spunto da una storia semplice e riuscire a farne qualcosa di straordinario. Mi sono resa conto del modo in cui Abdel lavora ancora prima delle riprese quando mi ha dato da leggere la sceneggiatura e mi ha subito detto: “Leggila e poi dimenticala completamente!” Per Abdel era molto importante che provassimo del piacere recitando. Sul set ognuno di noi aveva una libertà enorme: se ti veniva improvvisamente voglia di uscire dalla stanza in cui si stava filmando, di correre per strada oppure di telefonare a qualcuno potevi farlo perché sarebbe stata la cinepresa a seguirti e ad adattarsi ai tuoi movimenti e non il contrario. C’era poi anche un’enorme libertà nei tempi: ti potevi trovare facilmente ad improvvisare per un’ora intera o due o tre. Quando giri con Abdel spesso non te ne rendi neanche conto.

La Vie d’Adèle è un film fisico, carnale che parla di pelle; Abdel non ama gli artifici, questo è senza dubbio uno stile molto particolare; sul set non c’era né parrucchiera, né costumista, né truccatrice. Per ogni scena abbiamo fatto moltissime improvvisazioni proprio perché Abdel non vuole rinchiudere nessuno in un ruolo prestabilito, vuole che tu dia qualcosa di te stesso, un qualcosa di profondo di cui spesso non sei neanche cosciente. Abdel voleva costruire la sua storia con le nostre personalità, per questo motivo desiderava che vivessimo profondamente la passione che dovevamo interpretare, voleva che fossimo nel cuore stesso di questa passione. Tutto doveva passare attraverso l’emozione, doveva partire da noi stesse per fluire poi nei nostri personaggi. Il risvolto della medaglia è che così facendo, ovviamente, ti spinge spesso ai tuoi limiti. Tutti i giorni facevamo delle improvvisazioni diverse. Abdel, per esempio, ci diceva: “Adesso ti metti a mangiare qualcosa e a piangere nello stesso tempo!” Oppure:“ Andate a prendervi un caffè con Emma (Lea Seydoux) e poi staremo a vedere dove tutto ciò ci porta!” Il film è un qualcosa che abbiamo costruito insieme, un giorno dopo l’altro; certamente questo non è un metodo convenzionale. A volte era divertente, a volte era seccante, a volte era emozionante.

Abdel è animato da una passione divorante, debordante e imponente, talvolta difficile da seguire; il suo modo di fare può essere destabilizzante perché vuole fare cadere le maschere e catturare la parte più profonda della tua anima. Non è una cosa da poco! Ma è proprio per questo che probabilmente il film ci seduce tanto.

La vie d’Adèle è caratterizzato dalla coabitazione di varie espressioni artistiche: la pittura, la scultura – Emma studia alle Belle Arti – e, ovviamente, la letteratura. Il film si apre su una discussione in classe di La vie de Marianne di Marivaux. Secondo te in che modo la presenza di queste diverse forme d’arte ha contribuito alla costruzione della narrazione?

Penso che la coabitazione di diverse forme d’arte renda il film ricco e contribuisca a ritmarlo; d’altra parte questo desiderio di trasmissione di cultura che troviamo presente in quasi tutti i suoi film fa parte dell’universo di Abdel. Il romanzo La vie de Marianne di cui si discute tanto all’inizio del film è un testo di Mariveau – scrittore di prosa e autore di teatro – un testo che rinvia direttamente all’universo stesso del film e alla sua genesi: Mariveau è infatti un uomo che riesce a descrivere perfettamente il mondo interiore di una giovane donna, Marianne, così come Abdel stesso fa penetrando nell’intimità di due eroine femminili per descriverne le emozioni più profonde. Questo aspetto è associato nel film a un interesse e a una preoccupazione diciamo di ordine più sociale; per Abdel era importante arrivare a descrivere, attraverso il rapporto delle due protagoniste, due classi sociali diverse. In quanto artista Emma è in grande misura indipendente ma questa sua indipendenza non è assoluta perché deve tenere conto dei clienti. Poi ci sono le scene che si svolgono a scuola, nel liceo di Adèle, che gli stanno particolarmente a cuore; l’insegnante che si piazza davanti a trenta alunni e cerca di trasmettere loro delle cose è molto importante per lui. Il tema della condivisione è infatti fondamentale in tutta l’opera di Adbel.

Da quanto dici si può dedurre che per lui la sceneggiatura del film sia stata più che altro un pretesto o, nel migliore dei casi, forse, un canovaccio… Secondo te dunque la sceneggiatura di Kechiche era una “non-sceneggiatura”?

Non è proprio così! (ride).  La sceneggiatura contava pur sempre un centinaio di pagine; penso però che Abdel stesso sia cosciente del fatto di avere ogni volta una sceneggiatura ben definita all’inizio, ma di lasciarsi poi prendere la mano e farsi trasportare altrove dagli attori con cui lavora giorno dopo giorno…

Si potrebbe forse azzardare quest’ipotesi: Kechiche voleva qualcosa di molto specifico dai voi attori e non ha smesso di chiedervi sempre di più finché non l’ha ottenuto. Sei d’accordo?

Penso che Abdel, nonostante tutto, sappia bene dove vuole andare ma che ami molto lasciarsi portare e trasportare, come dicevo prima. Per lui è molto importante, lasciare una grande libertà ai suoi attori, dare loro la possibilità di sviluppare appieno un personaggio. Abdel ama inoltre prendere il rischio di scegliere delle persone giovani che sono alle loro prime armi e metterle sotto le luci dei proiettori. Ha molta fiducia in questo materiale umano, per così dire, ancora allo stato bruto e – cosa ancora più importante – crede enormemente nell’istante, nell’epifania, nell’imprevisto e nell’imprevedibilità dell’attimo. Proprio per questa ragione l’intensità delle riprese è grande: il film si fa tutti i giorni, in ogni istante. Abdel non verrà mai a spiegarti il senso di ogni scena ma prenderà del tempo per parlare in generale della vita, di se stesso, di noi, di tutto. Nel suo modo di procedere ha un qualcosa di spirituale; quando parli con lui hai l’impressione che ti capisca a fondo perché possiede il dono dell’ascolto. È proprio per questa qualità specifica di Abdel che lo stato così particolare d’incoscienza da parte di noi attori ha giocato un ruolo fondamentale nel film, sia nelle scene d’amore che in quelle in cui era in campo l’emozione. Detto ciò a volte questo suo modo di fare può essere irritante e diventare eccessivo; ci sono momenti in cui Abdel può arrivare al mutismo assoluto per esempio. Nell’attesa esasperata del momento di grazia a volte arriva agli estremi esigendo un numero inverosimile di ciak per un’unica scena, cosa che finisce per essere estremamente estenuante. Siamo arrivati più di una volta a girare la stessa scena per una settimana intera, andando avanti senza sosta finché non è stato convinto di avere finalmente ottenuto da noi quello che voleva. Questo metodo, soprattutto all’inizio, era molto destabilizzante perché spesso non riuscivo a capire il motivo per cui una certa scena non andasse mai bene; col tempo poi ho compreso che Abdel stesso ama lavorare nello sfinimento, nell’esaurimento, in uno stato in cui non si controlla più niente, in cui ci si dimentica di se stessi e ci si abbandona completamente. Vi posso assicurare che ci si mette del tempo a raggiungere questo stato. Quando finalmente arrivi a mollare la presa, a lasciarti andare completamente Abdel pensa che questo sia il tuo momento di grazia, che questo sia l’attimo in cui sei più autentico.

Pensi che Kechiche sia contento del film così com’è?

Non saprei dirti… Abdel è un perfezionista ed è eternamente insoddisfatto: avrebbe potuto rifare il film da capo a fondo. Penso che il film gli piaccia, ma che vi trovi sempre delle imperfezioni, delle cose che avrebbe voluto fare diversamente.

Detto ciò, su questo film dispone di un’enorme quantità di materiale – circa 750 ore di pellicola – ed avrebbe potuto farne cinque versioni diverse, se avesse voluto… Noi stessi a tre settimane dalla fine delle riprese non sapevamo ancora quale sarebbe stata la fine del film; questo per dirti a che punto La Vie d’Adèle sia stato costruito un giorno dopo l’altro. Io stessa mi chiedevo cosa sarebbe successo al mio personaggio: sarei morta, non sarei morta, avrei ingurgitato dei sonniferi o no, avremmo seguito la storia originale del fumetto. Ci si era detti pure che alla fine Adèle avrebbe pure potuto morire annegata… Ogni giorno, era una cosa diversa!

Credi che il film avrebbe avuto lo stesso successo se avesse trattato di un amore eterosessuale?

Forse trattando di un amore eterosessuale il film avrebbe potuto offrire a un più grande numero di persone l’opportunità di identificarsi con la storia che racconta, d’altra parte nella sua forma attuale La vie d’Adèle è certamente di grande attualità: penso a quanto sta succedendo in questo momento in Russia con il movimento delle Pussy Riots oppure in Francia con l’entrata in vigore del matrimonio per tutti. Per tutte queste ragioni il film ha avuto senza dubbio un grande impatto. In fin dei conti pur essendo già nel 2013 penso che restino ancora molte frontiere da superare nella società. Comunque per me questa è sempre una domanda un po’ difficile perché durante le riprese il soggetto del film non è mai stato trattato in questi termini; non si è mai discusso del fatto che si tratti di un amore lesbico, né delle possibili rivendicazioni legate a questa circostanza.

Negli ultimi tempi è sorta una certa polemica intorno alle vostre dichiarazioni, soprattutto a quelle di Lea Seydoux, concernenti le condizioni in cui si sono svolte le riprese ed il comportamento estremamente esigente, autoritario, duro di Kechiche nei vostri confronti a cui si sono venuti ad aggiungere le accuse dell’equipe tecnica del film su degli orari di lavoro completamente fuori dalle norme. Vorrei sapere se oggi provi un certo rammarico per avere fatto questo tipo di commenti sul regista?

A proposito di questa polemica, direi che con le nostre dichiarazioni non avevamo l’intenzione di “demolire” Kechiche; non abbiamo fatto altro che raccontare la verità ma tutto questo ha preso delle dimensioni ben maggiori. I nostri commenti sono stati ingigantiti dalla stampa, a volte interpretati in modo diverso e spesso citati fuori contesto. Le riprese sono state effettivamente molto difficili per una serie di ragioni diverse; detto ciò in seguito ognuno rivendica quello che ha voglia di rivendicare. Io non sono un tecnico, ma posso capire le loro ragioni e se si ha qualcosa da dire penso che sia importante farlo. Per Lea e per me era importante spiegare che le riprese sono state faticose; non bisogna inoltre dimenticare che noi eravamo sempre, tutto il tempo in due. Quando arrivi ogni giorno sul set già triste e non sai dove stai andando e in più ti trovi costantemente in uno stato di fatica estrema, le cose non sono facili. Ovviamente il tuo modo di reagire di fronte a queste condizioni dipende dalla tua natura: c’è chi l’ha vissuta molto male e chi ne ha sofferto meno. Abdel è un uomo molto complesso, tormentato, come lo sono spesso gli uomini geniali; tutto questo è difficile da trasmettere agli altri durante le riprese e lo è ancora di più di fronte alla stampa. Quella del film è stata un’avventura umana intensa che si è protratta per cinque mesi: quando vuoi avvicinarti  alla verità, quando hai voglia di far uscire da te stesso delle emozioni, questo processo può essere sconvolgente, soprattutto se sei molto giovane, come nel mio caso. Comunque non posso parlare di rimpianto, non utilizzerei mai questo termine per descrivere quest’avventura non solo perché mi ha dato indubbiamente molto ma anche perché umanamente mi ha insegnato qualcosa; in questo senso devo molto ad Abdel e gli sono molto affezionata ma – è vero – Abdel può essere anche molto duro, come poteva del resto esserlo Kubrick o Hitchcock. Per esempuio, durante le riprese di Apocalipse Now gli attori erano tutti nella giungla strafatti di acidi e con un sacco di problemi, ma il film che ne è uscito è di un’intensità sconvolgente…Penso che a volte le riprese più difficili finiscano per darci anche i più bei film.

Considerando la tua esperienza di lavoro sul set di La vie Adèle se tu oggi sapessi che il tuo prossimo film è qualcosa di simile, lo faresti?

La tua domanda è difficile perché riguardo a La vie d’Adèle non ho solo dei ricordi negativi; ho imparato un sacco di cose, ho incontrato delle persone meravigliose, degli attori di grande talento e un cineasta che è certamente molto esigente, ma è anche un vero maestro della sua arte. Ognuno di noi per le sue ragioni ha un po’ sofferto durante le riprese; Abdel stesso ha sofferto, è inevitabile quando dai così tanto di te stesso per fare un film e passi così tanto tempo su ogni singolo piano per raggiungere una precisione, un’emozione e un’intensità assolute. Abdel ha dimostrato di avere un’energia enorme e mi ha veramente sorpreso in questo senso. Penso che, in fin dei conti, se dovesse trattarsi di un capolavoro come quello di Abdel, sì, sarei di nuovo pronta ad affrontare un’avventura simile.

Pare che l’agente di Kate Blanchet e Kate Winslet a Hollywood si sia interessata a te. Vorrei sapere quali sono i tuoi piani per il futuro e se ti vedremo presto in film di Hollywood.

È vero! A Cannes ho incontrato quest’agente che mi ha preso nella sua agenzia dopo avere visto il film; per la mia carriera è un passo enorme in effetti, ma poi bisogna fare dei casting e riuscire a passarli… Per quanto riguarda i miei progetti farò il mio prossimo film con l’attrice-regista Sara Forestier. È la prima volta che Sara dirige un film, in più veniamo dalla stessa “scuola” perché anche lei ha esordito a diciassette anni in un film di Abdel, L’esquive (2004), nel ruolo di Lydia per il quale aveva vinto anche il Cesar della migliore promessa femminile nel 2005. Sara ha scritto una bellissima sceneggiatura della quale non posso per il momento dirvi di più; nel suo film interpreterò uno dei ruoli principali, sono molto contenta perché si tratta di un ruolo di composizione in cui dovrò interpretare una ragazza balbuziente.

Parlavi prima del realismo di Kechiche ma per le scene di sesso pare abbiate utilizzato delle protesi, è vero? Volevo inoltre chiederti se per te è stato difficile confrontarti con questo aspetto del film?

Abbiamo deciso di trattare le scene di sesso come una qualsiasi altra scena nel film, come una scena in famiglia o una scena al liceo. Per noi il sesso fa parte della vita, fa parte integrante di una passione anche se, a volte, la gente ha delle difficoltà ad ammetterlo. D’altra parte, è vero, c’è una specie d’intrusione nella camera da letto di queste due donne che si scoprono, che si divorano a vicenda; questo elemento faceva parte del film. Per Abdel questa era anche una sorta di prova attraverso la quale doveva passare lo spettatore per capire il magnetismo che si veniva a stabilire fra le due ragazze. Avevamo entrambe delle protezioni nelle scene di sesso che ci davano la possibilità di muoverci, improvvisare e creare una coreografia con i nostri corpi senza sentirci a disagio.

Come hai vissuto tu queste scene e come hanno reagito i tuoi genitori?

Sinceramente sono state le scene meno dure del film! Non bisogna confondere le cose: c’è dell’artificio, dopotutto è cinema! Paradossalmente queste scene ci hanno aiutato a rompere subito il ghiaccio con Léa Seydoux che non conoscevo prima. Quando il primo giorno delle riprese ti ritrovi di fronte all’altro nuda, beh! (ride) questo senza dubbio aiuta a stabilire subito un certo rapporto d’intimità e di familiarità. Le scene sono recitate, sono un qualcosa di molto lontano da noi stesse: è stato quasi divertente cercare di incarnare questo ruolo nel miglior modo possibile, nella maniera più giusta. Per quanto riguarda i miei genitori in primo luogo bisogna dire che avevano già letto la graphic novel Il blu è un colore caldo di Julie Maroh da cui è tratto il film e l’avevano trovata molto bella. Poi le cose sono andate così: io ho visto per la prima volta il film nella sua versione finale a Cannes nella proiezione destinata alla stampa, per poterlo difendere e poter rispondere alle domande dei giornalisti in seguito. Il giorno dopo mio padre sarebbe venuto a Cannes per assistere alla prima ufficiale del film e mia mamma – che non era potuta venire al festival per motivi di lavoro – l’avrebbe visto in contemporanea a Parigi.  È vero che dopo la proiezione stampa ci sono state varie persone che mi hanno consigliato di dire ai miei genitori di non andare a vedere il film, ma io non sono stata a sentirle. Ho la fortuna di venire da una famiglia aperta e molto tollerante; i miei genitori rispettano le mie scelte e hanno l’intelligenza di comprendere che si tratta semplicemente di cinema e che, anche se la gente alza un polverone enorme, di fatto, non c’è un granchè di reale dietro tutto ciò. Ammetto comunque di avere telefonato a mio padre dopo aver guardato il film giusto per prevenirlo e spiegargli che quanto avrebbe visto sullo schermo era una semplice simulazione, un gioco d’attori, un artificio e nulla di più e per dirgli che si sarebbe sentito forse a disagio durante una decina di minuti ma non di  più… I miei genitori sono così rispettosi che poi non hanno mai toccato l’argomento: ho cercato di mettermi al loro posto e mi sono chiesta come avrei reagito io se mio padre o mia madre avessero lavorato per il cinema e avessero dovuto girare delle scene si
mili a quelle che ho girato io per La Via d’Adèle, sono giunta alla conclusione che  mi sarei forse sentita un po’ a disagio sul momento, ma tutto ciò non avrebbe in alcun modo influenzato le nostre relazioni.

Le due eroine del film appartengono a due classi sociali diverse; vorrei sapere se tu credi che l’appartenenza a due classi sociali diverse sia un fattore determinante nell’evoluzione di un rapporto amoroso.

Più che l’appartenenza ad una certa classe sociale direi che è la nostra educazione a giocare un ruolo molto importante nel nostro rapporto con gli altri. Fra le due protagoniste del film ci sono delle grandi differenze. Una vive in periferia con i suoi genitori, due persone semplici che non escono troppo di casa e l’altra che vive in un milieu artistico dove tutto il mondo va a dei vernissage, parla d’arte e mangia delle ostriche: non è certo la stessa cultura! Quando non sei impregnato in una stessa realtà quotidiana, puoi avere delle cose in comune ma c’è un qualcosa nel fondo di te stesso, una base che non è la stessa. Penso che nel film la fine del rapporto fra le due ragazze non sia dovuta solo a questo, d’altra parte devo ammettere di non poter essere completamente obiettiva perché di fatto abbiamo filmato una quantità enorme di cose che non sono poi entrate a far parte del montaggio finale del film. All’origine, per esempio, il mio personaggio si sacrificava molto di più; abbiamo filmato una scena in cui Adèle rompeva con i suoi genitori per potere vivere la sua relazione con Emma. Diciamo che l’amore fra Adèle ed Emma non era poi così semplice e senza rinunce. Trovo che Abdel abbia fatto un’ottima scelta alla fine lasciando fuori dal film tutti questi aspetti collaterali, alleggerendo così la trama e concentrandosi principalmente sul nucleo di questo incontro e di questa storia d’amore. Contrariamente a quanto viene mostrato nel film, io personalmente non credo che l’appartenenza a classi sociali diverse sia la causa prima della rottura di un rapporto fra due persone, penso piuttosto che ciò dipenda dagli individui e dai loro sentimenti; voglio credere che questo tipo di barriere si possano superare!

Ho letto che il titolo del film è stato cambiato a un certo punto e che ti sei ritrovata improvvisamente con il tuo nome sul cartellone! Puoi raccontarci come sono andate le cose?

Il mio nome nel film è cambiato circa tre settimane dopo l’inizio delle riprese; visto che Abdel continuava a filmare tutto il tempo anche durante le nostre pause in mensa e molte persone non se ne rendevano neanche conto – per evitare ogni confusione possibile in questi casi- ha deciso di utilizzare il mio vero nome anche per il personaggio del film. Inoltre Adèle in arabo significa giustizia e questa connotazione calzava a perfezione con la natura del mio personaggio; così  Abdel mi ha chiesto se ero d’accordo che usassimo il mio nome anagrafico nel film e io non ho avuto nulla in contrario. Ecco le cose sono andate così. Poi ho scoperto che il mio nome faceva parte integrante del titolo del film il giorno in cui è stata annunciata la partecipazione alla selezione del concorso internazionale a Cannes: è stata un’enorme sorpresa, non potevo crederci ma allo stesso tempo mi sono sentita anche molto fiera.

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