75 minuti per raccontare 87 ore di agonia. Un’agonia vera, durata quattro giorni, nell’ospedale psichiatrico di Vallo della Lucania, dove un uomo è entrato vivo e uscito solo da morto, dopo aver detto: “non fatemi andare a Vallo perché lì mi uccidono”. Chi sia quest uomo lo scopriamo a poco a poco dal racconto dei parenti e dalle surreali testimonianze della sua “cattura”, una caccia all’uomo degna di un terrorista internazionale, mentre la sua unica colpa era un’infrazione stradale e aver cantato canzoni anarchiche in riva al mare.
Francesco Mastrogiovanni, maestro elementare in pensione, viene ricoverato il 31 luglio 2009 e quasi da subito viene sottoposto a TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) e soprattutto ad un regime di contenzione, ovvero viene legato mani e piedi al letto. Il 4 agosto 2009 muore per edema polmonare. In tutto questo tempo viene solo sommariamente assistito (sedato e sottoposto a qualche blanda operazione di pulizia) e molto scarsamente nutrito. Medici, infermieri, donne delle pulizie gli passano accanto come se non lo vedessero mai. Un’inserviente pone accanto al letto dell’uomo legato mani e piedi un vassoio con il cibo e lo ritira intatto. Ai familiari è impedito di vederlo, malgrado abbiano tutto il diritto di farlo.
Un caso come altri, si dirà, sperando in cuor nostro che non siano molti (e invece no: sono tre i morti quest anno in seguito a TSO), ma che una circostanza del tutto inedita ha reso eccezionale, ovvero il fatto che la famiglia di Mastrogiovanni sia riuscita ad entrare in possesso delle registrazioni delle nove telecamere interne dell’ospedale. Ottantasette ore, che la nipote Grazia Serra ha visto e rivisto e deciso di rendere pubbliche in più occasioni, con l’appoggio dell’associazione “A buon diritto”, che a sua volta ha contattato Costanza Quatriglio chiedendole di entrare anche lei “dentro” questo materiale spaventoso e nei meandri di un complesso caso psichiatrico e giudiziario, che purtroppo ancora oggi non si è concluso.
Malgrado l’utilizzo di materiale d’archivio sia un elemento ricorrente in buona parte del cinema di Costanza Quatriglio, un cinema che possiamo sicuramente definire “civile”, è evidente che nessuna esperienza può preparare ad affrontare immagini di questo tipo e di questa infinita durata, “l’espressione del grado zero della coscienza”. Da subito però l’urgenza più forte è quella di trasformare in narrazione questo asettico susseguirsi di inquadrature fisse, il prodotto di queste nove telecamere, moralmente neutre come le macchine devono essere, che registrano un universo chiuso di stanze e corridoi con leggi sue proprie.
Medici e pazienti sono immagini che si muovono a scatti, un fotogramma ogni due secondi. Uomini senza volto, sfigurato dall’immagine iper-sgranata, che rimandano a quelli deformi e mostruosi dei quadri di Francis Bacon. Mastrogiovanni, che inizialmente vediamo aggirarsi libero per i corridoi come un fantasma, una volta legato al letto, nudo o con il pannolone, nella sua magrezza diviene allo stesso tempo la grottesca parodia di una figura cristologica e la vittima di un universo concentrazionario che trova la sua giustificazione nella reificazione del paziente e nella parcellizzazione delle responsabilità, da sempre l’alibi dei torturatori.
Per attuare il processo narrativo e cercare quindi di elaborare l’orrore delle immagini, Quatriglio ripercorre come le tappe di una via crucis le asettiche fasi del ricovero ospedaliero: l’accettazione, l’osservazione, il mantenimento, la visita, le dimissioni. Formule impersonali ma accoglienti che divengono invece il loro tragico opposto. Grazie ad un accuratissimo e allucinato montaggio del suono, riempie di scatti, ronzii, rumori metallici il silenzio da vuoto pneumatico che accompagna le immagini. Al vuoto morale dell’immagine, alla disumanità dell’osservazione che, secondo la regista, non può che portare a comportamenti disumani, si contrappone il suono delle voci, di cui non vediamo i volti ma sentiamo finalmente tutto il calore. Una donna che ha visto arrestare Mastrogiovanni in spiaggia e ne ha raccolto l’ultimo disperato appello, i familiari, le fasi del processo in cui è stata sottolineato l’atteggiamento privo di etica di medici e infermieri e infine un medico che ha fatto l’autopsia. Personaggio quasi cechoviano nella sua umanità, riesce, pur protetto dalla terminologia medica, a rappresentare tutte le fasi dell’agonia per edema polmonare, un processo nel quale il paziente, a causa di liquido nei polmoni, lentamente annega. E restituisce tutta la drammaticità di questa morte, semplicemente narrandola.

25/11/15

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