Alice, ragazza insofferente, collerica e manipolatrice, non è certamente il tipo di eroina che si guadagna le simpatie del pubblico di primo acchito.Radu Muntean ha saputo prendere questo rischio per creare il ritratto ruvido e forte di una giovane donna in rivolta contro tutti e contro se stessa.

Alice nuota costantemente contro corrente, colpisce prima di essere colpita e si accanisce cocciuta contro il prossimo per conquistarsi un posto nella vita. Correndo sin avanti per colmare il vuoto che si sente dentro, crea lo scompiglio al suo passaggio, ferisce indistintamente chi le sta intorno, rischiando di trovarsi alla fine completamente sola. Scavando nell’anima recalcitrante del suo personaggio alla ricerca dei molti perché, Radu Muntean riesce a costruire un canovaccio complesso di relazioni umane, nutrito di storie presenti e passate, rivelandoci, poco a poco, le ferite profonde della sua scomoda protagonista.

Alice, figlia adottiva, nasconde alla madre – che non è mai riuscita ad avere un figlio- il suo aborto. La sequenza iniziale si apre su quest’episodio messo in scena con una furia pari alla follia egocentrica della sua protagonista che affronta l’aborto farmacologico come un evento ordinario, un’avventura proibita che deve tenere nascosta dai suoi. Si nasconde nella casa di un’amica, poi all’arrivo del padre di quest’ultima, in quella di un’altra per riuscire a portare a termine il suo piano. A questo punto però la pellicola prende una svolta completamente inattesa; giunta dai suoi la ragazza decide di nascondere a tutti il suo aborto annunciando al contrario di essere incinta. Nonostante la sua giovanissima età, Alice ha sedici anni e va ancora a scuola, questa novità sembra immediatamente cambiare le cose in meglio per lei. Tutti iniziano a trattarla con indulgenza ed affetto, la coccolano e la proteggono. Alice, che non sembra provare il minimo senso di colpa per l’aborto che ha fatto, gode pienamente di questo periodo di grazia e d’indulgenza senza mai pensare alle possibili conseguenze della sua menzogna. La ragazza riceve finalmente dalla famiglia adottiva tutta quella premura e quell’attenzione che si sarebbe sempre augurata, ma le riceve solo grazie al fatto di portare un figlio nel suo grembo. La sua felicità fittizia é di corta durata. Il corso della vita, impetuoso come un fiume trascinerà Alice, follemente inconscia, verso un finale inesorabile.

Scegliendo la giovanissima Andra Guti per impersonare il difficile personaggio di Alice Radu Muntean ha avuto la mano felice.Il fisico imponente, lo sguardo malizioso e selvaggio, i movimenti felini, gli scatti improvvisi e l’energia debordante di Andra calzano perfettamente con il suo personaggio, di cui riesce a rendere perfettamente tutta l’ambiguità, la rabbia, il dolore e la voglia di vivere. La sua straordinaria interpretazione è stata giustamente ricompensata con il Pardo d’oro per la migliore attrice.

La conversazione con Radu Muntean ha avuto luogo a Locarno. Sfidando le temperature canicolari, il regista si è mostrato pronto a discutere dettagliatamente sui vari aspetti del film con l’energia e l’entusiasmo che lo contraddistingue.

 

L’aborto é un soggetto cruciale per la società rumena; durante l’era Ceausescu era assolutamente illegale. In Quattro mesi, tre settimane e due giorni, Palma d’Oro a Cannes nel 2007, Cristian Mungiu ci offre una cronaca agghiacciante delle pratiche correnti in quell’epoca. Questo tema era già stato trattato anche da un altro film girato in epoca comunista ma poco conosciuto al di fuori della Romania: Postacards with wild flowers di Andrei Blaier (1974). Ovviamente oggi la situazione legale é cambiata. Cosa ti ha motivato a scegliere proprio questo soggetto come punto di partenza per costruire la figura della protagonista?

Più che essere il fulcro del film direi che l’aborto è una sorta di veicolo, di mezzo di cui mi sono servito per costruire una sceneggiatura sulla figura di una figlia adottiva. L’origine di quest’idea proviene dal mio vissuto; nella mia famiglia c’è stata una storia di adozione. Sono sempre stato affascinato dal comportamento dei bambini adottati. Privati di vero affetto e di attenzione durante i primi anni della loro vita, spesso sviluppano in seguito dei gravi problemi emotivi. Questo è un soggetto che m’interessa molto. Partendo da questa premessa, io e i miei co-scenaristi, Răzvan Rădulescu e Alexandru Baciu, abbiamo discusso a lungo e siamo arrivati all’idea di un conflitto fra la madre e la figlia. Da un lato abbiamo immaginato la madre che non aveva potuto avere figli per cui ha adottato Alice e dall’altro la figlia Alice che, pur essendo una ribelle sbandata, restando incinta, riesce a realizzare quanto era rimasto precluso alla madre adottiva. Il corpo di Alice è capace di procreare; questo evento inatteso crea un nuovo, forte legame fra la madre e la figlia. E stato attraverso questo cammino che il soggetto dell’aborto è alla fine entrato a far parte del film ma non è stato all’origine della sceneggiatura. Ovviamente la società rumena di oggi è molto diversa da quella precedente la caduta di Causescu e per fortuna l’aborto non è più un soggetto tabù ma viene visto come una scelta individuale di ogni donna.

Da più di una decina d’anni lavori sempre con lo stesso team di co-scenaristi, Răzvan Rădulescu e Alexandru Baciu e con lo stesso direttore della fotografia, Tudor Lucaciu….

Si, in effetti la prima volta che siamo stati invitati a Locarno, ben 12 anni fa, con The paper will be blue, il gruppo che aveva lavorato sul film era esattamente lo stesso di oggi.Era la prima volta che facevamo un film insieme, da allora in poi non ci siamo più lasciati! (ride)

 Come si svolge concretamente questo sforzo collettivo di scrittura, qual’è l’alchimia del vostro processo creativo? Quali sono i ruoli e i compiti rispettivi di ognuno di voi?

In primo luogo devo dire che siamo degli ottimi amici. Ci piace stare insieme e discutere di mille cose; di questioni personali, di fatti quotidiani o delle nostre idee. Parlare e scambiare opinioni è un piacere, spesso le nostre discussioni sono molto intense. Non siamo sempre d’accordo ma, parlandone, scopriamo sempre dei nuovi aspetti, delle prospettive diverse. In realtà scriviamo tutti e tre ma di solito sono io ad arrivare con un’idea per un eventuale film poiché poi tocca a me realizzarlo… Da questo momento in poi cominciamo a parlarne regolarmente e a scambiarci le nostre idee. Di solito questo processo dura approssimativamente un anno. Ovviamente tutto questo succede seguendo una serie di tappe successive: la prima è la sinossi. Per noi in primo luogo è importante essere d’accordo sulla storia che vogliamo raccontare e avere le idee chiare sulle scene che la costituiranno in ordine cronologico. A questo punto ci dividiamo il lavoro in tre: ognuno di noi si occupa di una parte del film prendendosi cura di tutti i dettagli; l’azione, i dialoghi e i movimenti all’interno di ogni scena.   Durante questa fase ognuno di noi spedisce agli altri una prima stesura delle scene di cui si è occupato. A questo punto ci scambiamo le nostre impressioni e i nostri commenti. Spesso, in seguito alle osservazioni ricevute dagli altri membri del gruppo, cambiamo delle scene. Alla fine facciamo una lettura comune. Nel corso di questo processo ci rendiamo spesso conto di quello che non va ancora bene e cerchiamo di lavorare sui dettagli. I dialoghi sono particolarmente importanti per noi. Sono il frutto di una lunga ricerca e di molti tentativi di scrittura ma non sono mai definitivi. Se durante le prove con gli attori sento che qualcosa stona, cerco subito di modificare il dialogo, di renderlo più naturale, più credibile. Ascolto spesso anche i loro consigli, le loro suggestioni.

Stando al processo che hai appena descritto, nel momento in cui iniziano le riprese tutti gli elementi del film sono già precisamente definiti. L’improvvisazione quindi non fa parte del tuo metodo di lavoro.

Direi di no, anche perché girando, come faccio io di solito, dei lunghi piani sequenza, bisogna sapere in anticipo esattamente cosa fare. Questo ovviamente non riguarda solo me stesso ma l’intera troupe: gli attori, il direttore della fotografia, il tecnico del suono e via di seguito. Un piano sequenza è sempre veramente complesso: mentre gli attori si muovono e si spostano nello spazio bisogna che la cinepresa e il suono sappiano in anticipo cosa succederà per poterli seguire. Quando la cinepresa ruota oltre i 180 gradi sul suo asse si vede tutto lo spazio che la circonda. Dal momento in cui noi lavoriamo in luoghi reali dobbiamo fare attenzione ad ogni minimo dettaglio. Spesso inoltre le riprese si svolgono all’interno di piccoli appartamenti difficili da illuminare che non offrono molte alternative sul dove piazzare i proiettori, lo stesso vale anche per i microfoni che rischiano di entrare in campo.

La prassi che seguiamo di solito é questa: in un primo tempo facciamo delle prove con gli attori fuori dal set, di seguito si fanno le prove con gli attori sul set. La prova finale, prima dell’inizio delle riprese, si svolge in presenza di tutto il team. Inoltre oggi esistono delle applicazioni su I-Phone che permettono di girare una scena come se si usasse la lente di un obiettivo, per cui, quando arriviamo sul rodaggio sappiamo tutti, nei minimi dettagli, quello che dobbiamo fare e il tipo di immagine che dovremmo ottenere. Se voglio poter fare dei piani sequenza devo prepararmi nel modo che ho descritto.Questo metodo mi permette di sentirmi completamente libero da ogni preoccupazione tecnica e di potere impiegare tutta la mia energia sul set. Le riprese sono un momento di grande intensità emotiva; nonostante tutte le prove che si possono essere fatte prima quello che conta è il momento in cui si gira. Ci sono alcune scene, come quella cruciale nel film in cui la ragazza deve finalmente ammettere la sua menzogna e scoppia in un pianto disperato che devono raggiungere il loro apice d’intensità davanti alla cinepresa. Non è sempre facile.

La scena che hai appena descritto è la scena cruciale del film ed è molto carica emotivamente. Immagino che non sia stato facile riuscire ad ottenere dalla tua giovane interprete una tale intensità.

 E stata una scena molto dura da girare, perché Andra Guti non essendo un’attrice professionista, non conosce la tecnica, il modo per arrivare a questo tipo di esplosione emotiva. Nella sua vera vita Andra non è il tipo di ragazza che piange facilmente. Per riuscire a farla piangere bisognava riuscire a toccare il fondo delle sue emozioni. Inoltre bisogna immaginarsi quanto sia difficile in queste condizioni riuscire ad avere non solo uno scoppio di pianto – cosa di per sé non evidente- ma ad averlo in un momento ben preciso… Come dicevo prima: si possono fare delle prove su un dialogo, sui movimenti ma sull’intensità dei sentimenti espressi in una scena è molto più difficile.

Reazioni forti di questo tipo sono una specie di miracolo in una scena.

 Forse la bellezza del mio lavoro consiste proprio in questo; in una specie di perdita di controllo. Perché è evidente che nonostante tutti gli sforzi e l’impegno, il film ad un certo punto diventa un’entità a se, ci sfugge, diventa indipendente un po’ come succede nella vita con i propri figli.

 Scegli di filmare per lo più con una camera fissa conferendo così allo spazio una qualità teatrale. Perché?

 La mia intenzione è quella di essere il più discreto possibile. Vorrei cercare di gommare la mia presenza, di non interferire fra gli attori ed il pubblico, per permettere così agli spettatori di sentirsi coinvolti, di vivere nello stesso tempo dei personaggi e di non sentire la mia presenza. Ovviamente, di fatto, intervengo costantemente ma l’immagine deve riflettere la mia presenza il meno possibile, deve essere pacata, naturale. Il mio compito consiste nel ‘manipolare’, in un certo senso, lo sguardo dello spettatore dirigendolo sottilmente verso la parte più importante dell’inquadratura attraverso i mezzi tecnici che ho a disposizione cioè dei movimenti impercettibili della cinepresa, la messa a fuoco dell’obiettivo, gli spostamenti dei personaggi nello spazio, il suono in e off. Utilizzando tutti questi elementi si arriva a creare un taglio all’interno dell’inquadratura senza ricorrere al montaggio. Così facendo l’integrità di spazio e tempo nell’inquadratura rimane intatta. Non ci sono tagli e l’attenzione dello spettatore resta concentrata all’interno di una stessa inquadratura mentre io occupo la posizione di un osservatore discreto, talmente discreto che alla fine il pubblico di dimentica della mia presenza per vivere nello stesso tempo dei personaggi.

Retrospettivamente parando, qual’è stata la difficoltà maggiore che hai dovuto affrontare nel processo di preparazione e di realizzazione di Alice T?

Per la prima volta nella mia carriera la protagonista del film non era un’attrice professionista. Confrontarmi con questo tipo di situazione, per me nuova, è stata una grande sfida. Andra è una persona molto particolare, ha un ottimo istinto, è possente. Abbiamo lavorato con lei durante quattro, cinque mesi prima dell’inizio delle riprese preparandola al suo ruolo, alla fine del film ha dimostrato di essere l’interprete con la maggiore professionalità! Ma devo anche ammettere che Andra si è dovuta confrontare forse con il ruolo più difficile che io abbia mai scritto. Questa per me è stata una vera posta in gioco perché è impossibile quantificare l’intensità delle emozioni di un individuo. Lavorare con Andra è stato duro ma la ricompensa della sua bella interpretazione è stata altrettanto grande!

 

 

 

 

 

 

 

 

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