Gli zombi invadono Locarno. Nel primo weekend del festival tre pellicole riesumano, in forme non necessariamente consapevoli e volontarie, la mitologia del cadavere che torna in vita catalizzando l’attenzione della rassegna. L.A. Zombie, Rammbock e Womb sono tre film che più diversi non si potrebbe e perciò provare a racchiuderli in un discorso unico, nel nome dell’archetipo del morto vivente, ci appare ancor più interessante e stimolante.

Parte prima – L.A. Zombie

Il più controverso di questo curioso trittico è certamente L.A. Zombie, singolare esperimento porno-horror che sta monopolizzando, come prevedibile, il chiacchiericcio locarnese con la benedizione del direttore artistico Olivier Père. Dopo il divieto oppostogli dal Festival di Melbourne, che la prima volta in sette anni ha giudicato un’opera “irricevibile” (nel 2003 toccò al poi fortunato Ken Park di Larry Clark), il lavoro del canadese Bruce LaBruce è giunto in Svizzera con la predestinazione dello scandalo; come nella tradizione del suo autore, un artista su più fronti (è anche attore, fotografo, artista visuale, scrittore e giornalista) avvezzo alla provocazione, che non si può non definire estremo.

La trama è presto detta. Uno zombie (alieno?) emerge dall’Oceano Pacifico e accetta un passaggio in auto. Dopo poco però il mezzo viene coinvolto in un terribile incidente a causa del quale il conducente perde la vita. La creatura, rimasta invece illesa, ha un rapporto sessuale con il cadavere e in questo modo lo riporta in vita. Comincia poi a vagare per Los Angeles in cerca di altri corpi maschili con i quali accoppiarsi mentre la sua identità appare sempre più confusa: non è chiaro se egli sia davvero uno zombie o piuttosto un senzatetto schizofrenico. Incapace di confrontarsi con la dura realtà della metropoli losangelina, l’essere troverà pace soltanto rifugiandosi in un cimitero.

È bene precisare che di L.A. Zombie esistono due differenti versioni: oltre a quella vista qui nell’ambito del Concorso Internazionale, della durata di 63 minuti, ne esiste infatti una più lunga, esplicitamente destinata al mercato dell’hardcore, in cui le gesta dello zombie protagonista François Sagat, pornoattore tra i più noti, avranno probabilmente ancora più risalto. Ciò non toglie che anche questa versione locarnese sia pienamente assimilabile al genere porno, e non solo per l’esplicitezza delle scene di sesso (le penetrazioni sono reali, i membri in erezione mostrati in primo piano senza alcuna reticenza e così via): è propria del porno, infatti, la struttura del film, in cui la trama è un filo esile che serve a tenere insieme il susseguirsi delle prestazioni sessual-orrorifiche messe in scena – in sostanza, a riempire i vuoti tra di esse.

Ovviamente questo è un primo livello di lettura, tutt’altro che sufficiente, ma necessario per capire di che cosa stiamo parlando. Il porno è la forma che Steve LaBruce, classe 1964, che fino a pochi anni fa si considerava un Reluctant Pornographer (questo il titolo della sua “autobiografia prematura” scritta nel 1997), ha scelto ormai definitivamente per raccontare attraverso le immagini, forse la lente attraverso la quale osserva la realtà. Indagarne il perché sarebbe impresa di difficile riuscita e probabilmente oziosa, mentre i suoi precedenti lavori hard, sempre di impronta gay, girano per i festival di mezzo mondo, Sundance compreso. Rimane il fatto che dentro un mondo mediocremente televisivo, anestetizzato sia dal punto di vista estetico che morale, in cui il perbenismo e la correttezza dello sguardo dominano gli schermi, la scelta di questa forma estrema diventa un atto oggettivamente politico, persino al di là della coscienza di chi la compie.

Ma sul cortocircuito che LaBruce attiva con la politica c’è di più. Il suo sguardo si lascia vagare dentro il corpo della sua creatura per i sobborghi losangelini più degradati, a comporre il suo personalissimo canto alla città degli angeli. Qui lo zombie si confonde tra gli homeless, come loro fa la fila alle mense (molte riprese danno l’impressione di essere rubate), trascina il suo carrello con la vita dentro. Un mondo di disperati, di morti che camminano, in cui uno zombie non desta alcuno scandalo.

In ogni caso dal punto di vista prettamente visivo la forma estrema dell’hardcore è quella che ha permesso a LaBruce di proporre sullo schermo una delle scene più folgoranti – a parere di chi scrive – del cinema degli ultimi anni, cioè quella del primo amplesso. Lo zombie si accoppia con il cadavere del conducente penetrandolo nella ferita provocatagli dall’incidente, giusto in mezzo al petto: in questo modo il membro della creatura arriva, durante l’atto, fino al cuore, che proprio in seguito al contatto riprende miracolosamente a pulsare. Una sequenza dal sapore cronenberghiana, in cui la scelta di un digitale rozzo e brutale, quasi da ripresa amatoriale, unito a trucchi da trash-movie, conferisce alle immagini un surplus di realismo difficilmente sostenibile. Si potrebbe far notare che già nella tradizione classica, sia letteraria che cinematografica, di un altro grande archetipo del fantastico e dell’horror, il vampiro, in qualche modo fratello maggiore dello zombie, il morso del non-morto risveglia nella vittima l’erotismo sopito: è già, quello, un contatto che dà/restituisce la vita. La differenza ovviamente è che dove lì regnava l’allusione, la suspense propria dell’erotismo, in LaBruce invece tutto è mostrato, fin nella sua forma più esplicita e cruda, un passo e mezzo oltre il cattivo gusto. A voi la scelta.

 

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