Womb in inglese vuol dire grembo, ed è il titolo anatomicamente puntuale da cui prende vita la storia d’amore, senza età né ragione, tra Rebecca e Tommy. Si innamorano a dieci anni, i due, teneramente quanto brevemente, perché lei è costretta a partire al seguito della famiglia. Dopo essere stati separati per molti anni, si ritrovano, giovani adulti, come se il tempo non fosse passato. Di nuovo però il loro legame è reciso sul nascere: lui muore in un incidente stradale sotto gli occhi della ragazza. Devastata dal dolore e incapace di vivere senza Tommy, Rebecca si rivolge al locale Department of Genetic Replication e dà vita a un suo clone. La gioia per un nuovo Tommy che si nutre e cresce grazie alle sue cure di madre è però presto turbata dalle implicazioni e dalle ambiguità che il loro rapporto comporta. La situazione precipita quando col passare degli anni Rebecca si trova davanti l’immagine esatta del suo amato.
Opera seconda dell’ungherese Benedek Fliegauf, immaginato in un futuro prossimo, Womb è interamente ambientato in una remota zona costiera, probabilmente del Nord Europa (l’esatta collocazione geografica della vicenda non è mai precisata) ed esclusivamente in stagioni fredde. Dunque il paesaggio predominante è quello di grandi spiagge deserte, percorse da rari avventori solitari e governate dagli elementi: la pioggia, il vento, il mare in tempesta. Il talento visivo di Fliegauf è fuori discussione e dentro questo scenario trova un’espressione vivida. La cura nella composizione dell’immagine (la fotografia gelida è di Péter Szatmári), i lunghi piani fissi con cui vengono ripresi gli ambienti e l’attenzione ai dettagli naturali offerti da un setting stupefacente (che nella realtà è l’isola tedesca di Sylt, nel Mare del Nord) testimoniano un virtuosismo estetico non comune, che soprattutto nella prima riesce ad affascinare. Il punto però è se il solo sguardo messo in campo dall’autore basti a soddisfare le enormi ambizioni poetiche e filosofiche contenute nello script; a fare insomma di Womb un film compiuto.
Un primo banco di prova è ovviamente la questione della clonazione, e l’impressione qui è che la pellicola non affronti davvero i nodi più interessanti. Dal momento in cui la scelta di Rebecca è compiuta (dare corso alla clonazione di Tommy), la storia sembra svolgersi unicamente nell’attesa del possibile «misfatto»: l’incesto – ammesso che tale si possa definirlo – avverrà o meno? Quel che è peggio è che questa attesa è intrisa di una grave e angosciosa sacralità. Rebecca diventa una specie di sacerdotessa, il suo volto una maschera impassibile, ogni sua parola una sentenza. Fliegauf, sceneggiatore unico oltre che regista, rifiuta la concretezza che gli avrebbero concesso i possibili sostegni del genere SF (a cui, dopotutto, Womb formalmente appartiene) per inseguire un’idea di cinema d’autore duro e puro, privo di concessioni affabulatorie e cedimenti spettacolari. Ma il suo progetto si rivela a conti fatti inane, se è vero che non gli permette di fornire risposte agli interrogativi più affascinanti sollevati dalla distopia immaginata: in che misura la genetica impone un sentimento? quale il grado di autonomia di un clone dal suo «originale»? Di ironia neanche a parlarne, ed ecco allora che il ridicolo involontario, a fronte della solennità copiosamente inflitta allo spettatore, diventa una prospettiva concretissima.
In effetti dove il film pare più drammaticamente fallire, prima ancora che nell’affrontare la questione clonazione e gli ovvi problemi di verosimiglianza che essa implica in quanto opzione a tutt’oggi soltanto futuribile, è proprio nello stabilire una relazione con lo spettatore. Una storia come quella raccontata in Womb richiede a chi sta al di qua dello schermo, oltre che un alto grado di sospensione dell’incredulità, anche un grado di empatia assai elevato, una immedesimazione incondizionata in ciò che viene raccontato. Senza che riusciamo perlomeno a sfiorare l’assolutezza del sentimento che lega i due protagonisti dalla più tenera età, la psicologia di Rebecca non può che risultarci incomprensibile e gratuita, il comportamento di Tommy stucchevolmente robotico. Fliegauf sembra dare per scontata questa adesione e non fa nulla per rendere in immagini e parole la chimica che si attiverebbe tra Rebecca e Tommy. Di certo non gli giova, in questo, la scelta dei due interpreti, la ex dreamer Eva Green e il divo della tv inglese Matt Smith, drammaticamente privi del carisma necessario, oltre che assai mal diretti.
E così, paradossalmente per un’opera che aspira ad essere la storia di tutte le storie d’amore, il gelo in cui Womb aveva immerso lo schermo sin dall’inizio non arriva mai a sciogliersi, a farsi emozione: le sue rimangono solo belle immagini.
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