L’immagine d’apertura,  una donna che si trucca e si veste in maniera sensuale ed  entra in scena ballando e cantando in francese sul playback di una voce maschile un appassionato tango, ricorda al contrario la scena dell’almodovariano Tacchi a spillo in cui Miguel Bosè, con parruccone biondo e minigonna mozzafiato, entrava su un palcoscenico interpretando, in un playback stavolta di voce femminile, la versione spagnola di “Un anno d’amore” di Mina. In realtà, basta che l’inquadratura si apra per comprendere che la ragazza in questione usa come microfono una scopa per  spazzare a terra e che la “scena” non è altro che un negozio da parrucchiere, unisex come precisa la scritta al neon, dal look decisamente kitsch, che non sfigurerebbe in un film del Pedro d’annata.

Si apre così, in maniera totalmente inaspettata, Pitza  e datteri, il nuovo film del regista curdo Fariborz Kamkari, spiazzante se si pensa che l’ultima immagine che avevamo del suo cinema, nel teso e rigoroso I fiori di Kirkur affrontava la repressione del regime di Saddam Hussein contro il popolo curdo, in equilibrio tra tragedia collettiva, riflessione storica e politica, melò e thriller.

Anche questa volta, e l’incipit marcato lo sottolinea, Kamkari utilizza gli stilemi del genere per leggere una realtà conflittuale e dicotomica, cambiando prospettiva e, di conseguenza, anche genere cinematografico: dal genocidio dei  curdi in Iran, una situazione  sentita in prima persona da Fariboz, lui stesso curdo nato in Iran, alle difficoltà di integrazione delle comunità islamiche nelle città europee, sotto la  luce costantemente attuale di pregiudizi ed estremismi reciproci, che attecchiscono in particolare in un mondo occidentale incapace di sostenere il proprio collasso e in grado di rispondere all’Altro solo con l’esasperazione e la rabbia alimentate dal fuoco della frustrazione.

Si, anche un argomento di tale portata  si prestava ad essere affrontato attraverso uno sguardo in alternanza tra emozione e lucidità, ma il campo della scelta azzardata e controtendenza di Kamkari viene subito sgombrato dalla scena del salone di bellezza.

Scopriamo ben presto che poco tempo prima quel salone era la moschea(!?) della comunità mussulmana a Venezia e che è stata la conturbante ragazza franco/turca  del canto in playback a strappare il luogo di culto ai fedeli, per vendicarsi di un marito che l’ha lasciata indebitata. Si tratta dunque di una situazione grottesca già in partenza, che smonta il mito del maschio padrone e dominante  su cui si basa la percezione unilaterale dell’islam da parte degli occidentali, per presentare i piccoli uomini devoti alla preghiera come spesso succubi o schiacciati dalla forza femminile, in grado di esprimersi con una fierezza e una sensualità a cui si oppone un maschile deriso nella sua goffaggine e nel suo infantilismo travestito da orgoglio

L’Imam che viene  mandato per risolvere la situazione è infatti poco più che un ragazzino, un Candido che non vuole farsi corrompere dalle tentazioni del mondo occidentale (si benda in continuazione gli occhi) e che, in un crescendo di eventi sempre dal tono spudoratamente farsesco, mirati a rovesciare e scardinare pregiudizi, paure e luoghi comuni (primo tra tutti quello di non poter parlare di faccende serie come la lapidazione delle donne  o gli attentanti kamikaze  con una leggerezza che, per contrasto, ne mette in risalto l’orrore),passerà dalla radicalità e dall’intolleranza del non voler vedere ad una umanissima accettazione, con una pericolosa sfumatura di piacere, nei confronti del diavolo, incarnato dalle movenze e dal piglio deciso della sensuale parrucchiera.

Il paradosso comunque non si ferma qui, visto che al percorso di apertura e ammorbidimento dell’Imam, si contrappone quello del “fedele” più eccentrico nella già insolita e buffa banda di adepti ad Allah, un corpulento veneto, devotissimo della preghiera seppur con spiccato accento e sofferta tentazione verso i peccati della gola e della carne, a cui dà vita Giuseppe Battiston, l’attore icona del nostro cinema per quel che riguarda personaggi in bilico tra rudezza e tenerezza, voglia di riscatto e indolenza, il tutto attraversato da quel brivido di inquietudine sommerso della provincia.

Qui capiamo ben presto che il suo convinto veneto/mussulmano, il quale propone sin dall’inizio e senza battere ciglio le soluzioni più estreme per liberarsi della maledetta infedele, affonda le radici di una scelta tanto anticonformista in una vita fatta di insoddisfazione, di un padre fraudolento che l’ha abbandonato lasciato nelle mani avide delle banche, di una continua fuga dall’ufficiale giudiziario che deve notificare l’atto di sfratto dalla casa/palazzo preziosissima e decadente in cui vive privato ormai di tutto.

Il  suo è un viaggio verso il punto di non ritorno, una tragedia a tutti gli effetti  a cui però Kamkari non vuole aggiungere, anche questa volta, un carico più massiccio di quello che già offre la fisicità del Battiston  che corre tra le calli di Venezia inseguito dall’ufficiale giudiziario, a memoria forse di quando l’inseguitore lo faceva lui, ma nei confronti di Licia Maglietta, casalinga disperata e rifiorita in Pane e tulipani, riecheggiante, solo nel titolo e nella scena citata, questo Pitza e datteri, con una suggestione e una sfumatura diverse: surreali e poetiche per il  film di Silvio Soldini,  grottesche e paradossali per Kamkari (la pizza con i datteri che l’Imam Saladino chiede ad un bar in Piazza S. Marco, l’immagine di un’improbabile e insieme possibile integrazione).

Tutti gli opposti di cultura e mentalità sono ridotti a luoghi comuni e a clichè per poter trovare un punto di incontro, una zona di collisione e contaminazione  e lo sguardo sceglie consapevolmente l’ironia, quella di grana grossa, per suscitare una reazione immediata, “di pancia”, con il rischio però di perdere a posteriori lo spazio per una riflessione più articolata, rimanendo divertiti solo dal livello della farsa.

In chiusura, una suggestione che mi permette di trovare un altro contatto più sostanziale con il cinema di Silvio Soldini che qui tanto mi ha riecheggiato nella mente per la presenza del buon Battiston e di un titolo affine come Pane e tulipani: Il comandante e la cicogna mi aveva fatto pensare all’immagine geniale e sintetica di un mondo grottesco e paradossale, della barca che si scontra con un divano durante la sequenza dell’incidente stradale nel capolavoro Nashville dell’immenso Altman.

Ecco, credo che tra tutti i sensi e le possibilità quell’immagine contenesse anche un po’ il senso di Pitza e datteri: se si corre il rischio di far incontrare/scontrare  tra di loro cose dalla natura completamente diverse, si possono creare situazioni imprevedibili e spiazzanti.E si può rimanere ammirati come pure, semplicemente, provare un’onesta simpatia.

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2 commenti su “Pitza e datteri

  1. bello, leggero, incuriosente ma non prontamente assimilabile come un sogno di ircocervo, una pizza con datteri, un incontro tra culture che pone ironico rimedio a un’emarginazione sociale, sessuale, religiosa, (geo)politica. Sia essa di imam molto pio ragazzo forse gay, indebitato bulimico dal padre abbandonato, kurdo senza stato e senza casa, donna vivace ma costretta a patti, con o senza velo a coprire il capo la bocca gli occhi. E un bellissimo pezzo, condivido, anche per il tributo al lievegarbato Soldini. Con o senza i PituraFreska : òi domavèder (se non i piflòi) il Fariborz e il Battiston (màssa màssa grande) !!

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