di Alessia Brandoni/ In questi giorni di costrizioni, assenze, assedi e pensieri, di ricordi e emozioni in gradi e forme diverse, non sempre concordanti, pensiamo possa essere utile ma prima ancora bello, ripescare nella rete delle immagini quelle che, appunto, riaffiorano -e non si capisce bene il perché. (In questi giorni… ci accorgiamo che lo abbiamo già scritto in altri frame e impressioni pubblicati di recente; tuttavia, questi sono effettivamente giorni di ripetizione, e quindi anche di un modo di concepire la differenza e il nuovo, di un modo di stare in rapporto con questa ripetizione, con ciò che la rete del tempo sbalza fuori nel nostro spazio di ora, per molti versi terribile). Perché e quando, allora, torna a galla La guerra di Mario, film di Antonio Capuano uscito in sala nel 2006? Forse per l’incipit e poi, come si dirà, per la fine? -Mario e Giulia si abbracciano e la prima frase che il bambino le dice è “pensavo fossi morta”; ed è subito melò, come anche a dire la madre di tutte le storie d’amore. Forse quando Mario le poggia le mani sulle spalle affaticate e contratte e le dice “sei bella, perchè non ti metti il rossetto?”. Forse quando Mario e Giulia fanno la guerra, una rilettura della lotta per il riconoscimento, schegge di desiderio di un’affermazione del sé, il voler fare di testa propria a costo di ferire l’atro, di negarlo e con questo di negare il mondo esterno, di possederlo, riconducendolo alla logica del Medesimo, e insieme il bisogno di farsi accettare dall’altro, ( il paradosso della dipendenza), con la lotta per il controllo che precipita nella trama del filo del telefono (il compagno di Giulia il terzo, il fuori) attorcigliato da Mario attorno al collo di Giulia. Poi il risveglio, un nuovo tentativo di lotta, alcuni gesti a tentoni e infine l’abbraccio, una maglietta a righe con cui attraversare la strada, (quella strada che di solito Mario invece sfida, non rispettando le regole del semaforo), un tentare altre strade? Forse quando Giulia (Valeria Golino) dice a Sandro (Andrea Renzi) “la presenza di un bambino di nove anni, che potrebbe anche essere tuo figlio, non ha comportato in te nessun cambiamento, ma come è possibile?”. Una domanda che lui evade (è abituato alla retorica persuasiva, e alla vanità, della televisione e della comunicazione troppo schermata che non è più comunicare con qualcuno, un modo con cui annullare anche le singolarità) e che gli impedisce di guardare gli altri negli occhi. Immaginare il futuro a partire dal coraggio, dal cambiamento, da ciò che ci attraversa, dalle relazioni. Da ciò che ci fa paura e rabbia e che non è per forza, non è soltanto, l’altro da sé. Immaginare incontri, parole, gesti, colori -profondi e assoluti come anche disciolti nelle strade e nelle metropolitane, come ci mostra il film. Esercitarsi nel mentre. Non facendo finta che tutta vada avanti come prima e che tutto andrà bene comunque. Scegliere. Dopo magari essersi persi. La fine del film è in questo senso un’accusa -o forse una domanda, provocatoria e densa, mai priva di grazia, che è nello stile e nella poetica del cinema di Capuano– contro la mediocrità di chi non si assume la responsabilità e anche la bellezza di stare in relazione davvero. Giulia in vestito rosso, lungo la ghiaia fuori il Tribunale che le ha tolto Mario, il figlio, l’incontro, la differenza, anche la disubbidienza, barcolla poi si riprende un poco, continua a camminare, diagonale tragica che buca l’indifferenza, la maschera, la legge che vuol porsi fuori e prima delle persone.

Mario è in guerra contro l’ingiustizia, la prepotenza, contro le gabbie culturali che stabiliscono chi è in grado di aggiungere valore -e chi no, o chi meno, quindi-, contro chi lo vuole costringere e rendere uguale a sé (il Medesimo)-forse perché non si riconosce più da tempo e allora torna ad aggredire, o comunque, magari tappandosi le orecchie e premendosi la testa come fa l’altera e anaffettiva madre di Giulia, pensa solo a come mettere fuori gioco l’intruso.

Buona visione, citando il grande Enrico Ghezzi, folletto che ha illuminato tanti passages e tante attese lungo la soglia dell’alba.

Pochi metri più in qua e sono sola, nel terribile spazio, nel terribile tempo. Allora un corpo, tolto dai suoni simbolici del ciao e del come stai è sbalzato molto lontano. Dobbiamo chiamarci continuamente” (Mariangela Gualtieri, da Fuoco Centrale, 2003)

 

Questa recensione è stata pubblicata su schermaglie nel 2012.

 

Contro le banalizzazioni diffuse che vedono la maternità e il dialogo tra spaccati sociali opposti attraverso lenti ideali o troppo sfocate si leva, magnifico, questo importante film di Antonio Capuano, che propone una visione affatto diversa della realtà traendo da essa linfa per arrivare a tutt’altre conclusioni. E’ una presa di coscienza si direbbe realistica, quella qui proposta, che mette in discussione, attraverso la relazione, i due protagonisti della storia rappresentata senza cercare scorciatoie che la epurino dai risvolti sgraditi e poco gradevoli che destabilizzano. Un cinema irriverente che non rinuncia a sperimentare, quello del regista napoletano. Lontanissimo dal risolvere i conflitti tramite i tanti falsi appelli al buonismo o per mezzo della ineffabile chiamata alla convivenza sociale, locuzione, quest’ultima, slittata oramai nella direzione della medicina miracolosa da distribuire nei conflitti di genere e di classe, e ovviamente da far ingoiare ai più deboli.

Giulia è una donna difficile, complessa, piena di contraddizioni. In un momento molto denso, in cui cerca di parlare con il compagno Sandro, chiuso e diffidente, gli dice, con disperata autenticità, di avere qualche problema di equilibrio al suolo e che da quando ha conosciuto Mario, ragazzino di Ponticelli che ha preso in affido, è cambiata, e quel disagio nell’omologarsi a terra è diventato un camminare su un filo teso che è oramai necessità. Giulia dice a Sandro che loro, borghesi colti e apparentemente liberi, non hanno mai rischiato niente, e che lei ha paura che l’essenza vitale di Mario, la sua radicalità, possa essere distrutta da tutta l’opacità che li circonda. Sandro, in risposta, sfugge al confronto nascondendosi dietro l’inadeguatezza, il timore del nuovo, che destabilizza, e la paura di mettersi in relazione con un bambino che, per certi versi, è più uomo di lui. Ha del risentimento evidente contro Mario e, di ritorno, contro la compagna: “Non ci ero abituato a tutto questo mettersi in gioco”, le dice. Dietro le spalle, mentre si sottrae, Sandro ha un muro grigio, Giulia, invece, dietro di sé ha come orizzonte la figura tesa e pulsante di Napoli, una massa che smargina fino a Ponticelli.

Mario è un bambino che è stato tolto alla madre che lo nutriva solo a patatine e coca cola, la Tv in casa sempre accesa, in un via vai di altri uomini. Un ragazzino diffidente e con una vitalità istintiva, una ferocia difensiva, un senso per l’arte che non gli viene dagli studi (ma che da questi ultimi non manca di trarre nutrimento: la fotografia, il flauto, il pianoforte). Mario vuole essere accolto, non educato, perché quel mondo dorato non gli appartiene. Ed è proprio una specie di opposizione che si consuma davanti ai nostri occhi, tra un bambino che sente forte, seppur profondamente ferito, un senso di appartenenza a un mondo violento e istintivo, e una donna molto strutturata  che non sente di appartenere a niente altro che alla propria intelligenza e cultura, che preferisce (ma questa è una parola troppo neutra) l’affido alla maternità naturale, in tal modo divenendo, almeno simbolicamente, madre di tutti bambini. Una onnipotenza che nasconde un senso di inadeguatezza fortissimo (“io non so come si fa ad essere madre, tu non me lo hai trasmesso” dice alla propria madre) . Comunque entrambi, e senza riserve, differentemente da Sandro, sono spinti da un bisogno, probabilmente troppo assoluto, di verità. Un bisogno doloroso e profondo –non omologato-  ma anche molto vitale. Non fingono né si trincerano dietro atteggiamenti, sono entrambi contraddittori, personaggi mossi, che, non senza ferocia (la guerra del titolo), cercano di arrivare ad avere un po’ di fiducia l’uno nell’altro.  In atto è un tentativo di dialogo tra due classi sociali che appartengono a mondi che fanno vite separate e diverse, ma in gioco è anche il dialogo tra l’istinto naturale e la coscienza culturale, un cambiamento di prospettiva che però passa per piccoli passi, avvicinamenti che si scontrano con l’aggressività selvatica di Mario e la onnipotenza prevaricante (eppure anche così insicura e fragile) di Giulia. Nel mezzo, lacerante, il ruolo distante e ottuso ma alla fine decisivo delle Istituzioni: un Giudice Minorile estraneo e una collaboratrice psicologa troppo coinvolta che sembra andare in competizione con Giulia per l’amore di Mario, (e che, chiusa e prepotente nel ruolo che riveste, non rispetta né lei né Mario).

Si sa che gli adulti si proteggono, si rintanano in luoghi che si illudono essere puri (Sandro sceglie la casa dei genitori come rifugio), l’uscire fuori è una prerogativa che, mediamente, non gli appartiene. La scelta di rompere l’imbroglio difensivo dell’abitudine e di aprirsi al cambiamento che un accadimento come quello di un affido comporta, non è affatto cosa facile. E’ più facile stare nascosti. E’ più facile restare puri (o distanti, come le Istituzioni) credendo e vedendo quello che si vuol continuare a credere e vedere. Da questa paralisi, da questa difesa dei propri privilegi, spicca, in opposizione, la figura dei bambini. Mario, ripetendo che per lui conta solo andare avanti, sceglie istintivamente di stare fuori. Come fuori (cioè dentro al mondo) sceglie di stare anche Giulia, giovane donna che non si adegua ai modelli correnti e che rivendica, seppur in un moto pendolare che non la esime dal compiere  molti errori (da una parte, ad esempio, tende ad escludere Sandro, dall’altra, tradizionalmente, gli chiede protezione), la libertà e la verità del cambiamento. Mario, per il suo ruolo di intruso (si sta citando George Simenon), per l’ambiente da dove proviene,  è l’elemento che produce cambiamento, a meno che non si scelga di fuggire dalla relazione alla prima difficoltà. In questa prospettiva il personaggio di Giulia, tramite il rapporto con la diversità di Mario, mette in gioco la sua intransigenza e il suo bisogno di assoluto (anch’esso in qualche modo un rifugio). Emblematica, e meravigliosamente delicata, in questo senso, la scena del tentativo dialogo tra i due attraverso le macchine parcheggiate nel garage che termina in un abbraccio partecipato ed emancipato (Mario fino ad allora aveva preferito accarezzare il proprio cane).

Sintomatico, forse, che Valeria Golino, in un’intervista, abbia detto di pensare, anzi, che le piace pensare di essere molto più normale e omologata dei personaggi estremi che interpreta, e che forse la sua aderenza a questi ruoli vada ritrovata nella sua fisicità.

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