Sarà per il canale privilegiato da sempre instaurato con i bambini e i ragazzi, quelli che sin da Vito e gli altri popolano e animano i suoi film, che Antonio Capuano, compiuti i settanta, conserva una vitalità che diresti davvero da guaglione. La gestualità esuberante e dinoccolata, i piccoli occhi febbrili, il regista/professore (cattedra di Scenografia all’Accademia di Belle Arti) anche seduto non sta mai fermo, mentre chiacchiera senza fretta del suo cinema e dichiara schiettamente affinità forse poco prevedibili («io sono un fan, anzi un devoto di Woody Allen!»), al pari di insofferenze ben note («la borghesia napoletana è incolta, arrogante, parassitaria»). Dal bar di via Caracciolo getta ogni tanto uno sguardo al mare che bagna Napoli, la città che è molto più dello scenario abituale dei suoi film: piuttosto una fonte d’ispirazione, un laboratorio naturale, l’unico crogiuolo in cui l’amalgama del suo cinema può prendere forma e vita. Il luogo dal quale parte, e a cui ritorna, ogni possibile ragionamento su di lui.

I primi due elementi che colpiscono guardando il tuo cinema sono la grande attenzione alla città di Napoli e la grande attenzione ai suoi bambini.
Io sono di Napoli, vivo a Napoli, e Napoli è una città che mi condiziona molto. Non me ne sono mai andato. Ho pensato di farlo, ma alla fine non l’ho mai lasciata. Sono stato all’estero, poi a Roma per lungo tempo, ma mi sono sempre sentito «fuori» quando non ero qui. Io a Napoli ascolto la vita. Tutte le storie mi arrivano da qui e raccontano questa città. È qui che le storie mi acchiappano. Poi bisognerebbe capire perché ho questo rapporto così forte con la mia città. Ma questo io non lo so…

Però la Napoli dei tuoi film è quella dolente, sofferente, povera. Perché soprattutto questa?
Forse perché ognuno di noi ha dei punti deboli… Achille con quel tallone andò in guerra coi sandali! Per dire che abbiamo tutti delle parti esposte, ed è su quelle parti che puntualmente vieni colpito.

Poi l’attenzione ai bambini…
Loro sono la cosa che mi colpisce di più. Ricordo come nacque Vito e gli altri, per esempio, il mio primo film. Da una storia vera che mi toccò profondamente, nel 1987. Quella di un bambino che fu messo in carcere a soli dodici anni. Di quella vicenda si parlò molto, ci fu addirittura un’interrogazione parlamentare. Come si può, mi domandai, finire in carcere a quell’età? Immaginai un secondino che apriva la cella a un ragazzino così piccolo, un secondino che poi diventa per forza di cose il simbolo di tutto il sistema giudiziario. Quel ragazzino subì in carcere molte violenze, e più ci pensavo più mi convincevo di dover raccontare la sua storia. Volevo rendere consapevole di questa stortura orribile quanta più gente possibile. Ma non avevo solo l’obiettivo di fare cronaca, ovviamente, per quello bastano i giornali. Pensai che con un film, con del buon cinema, potevo arrivare al cuore di quella storia.

Vito e gli altri, chi sono gli altri?
Raccontando Vito, finisci per raccontare il suo ambiente familiare, il suo quartiere e quindi una certa Napoli. Ecco che il cerchio si chiude.

Altro punto di partenza è la cronaca, come mai?
Dunque, mentre giravo Vito e gli altri si parlava molto di preti anticamorra, di quei sacerdoti, cioè, che hanno cercato, con la comunicazione, di combattere la grande criminalità. Da questo argomento nasce il mio secondo film: Pianese Nunzio 14 anni a maggio. Vennero fuori, in quel periodo, tante storie di figure coraggiose che hanno dato la vita per gli altri: da Don Puglisi a Palermo a Don Peppino Diana a Napoli. Ce n’era uno anche al Rione Sanità, che fu indicato come pedofilo, venne infangato il suo nome. La criminalità organizzata, visto che gli altri due erano diventati degli eroi, portò allo scoperto un suo punto debole e lo usò per screditarlo ed emarginarlo. Tutto il grande sforzo di quell’uomo fu reso vano. In seguito, proprio mentre giravo Pianese Nunzio, proprio nel Rione Sanità, incontrai un ragazzo, un certo Lello, che mi disse: «Antò, io ho una storia da raccontarti per un film». Stiamo parlando del 1995, e dentro quella storia c’era L’amore buio. Il racconto di Lello mi entrò in testa nel 1995 e sono riuscito a trasformarlo in un film solo nel 2010.

Un’altra storia di giovani vite…

Un’altra storia di giovani vite, un’altra storia incredibile. Il film si conclude diversamente, ma nella realtà Lello si è sposato con la ragazza a cui aveva fatto violenza. Ora hanno due figli. Quelle dei miei film sono tutte storie della città che mi colpiscono profondamente. Storie che arrivano da me e trovano il modo per entrare…

E tu le lasci entrare…
In confidenza, io vorrei fare altro, vorrei fare un film alla Woody Allen. Ma non ci riesco. Io sono un fan, anzi un devoto di Woody. Mi piacerebbe tanto scrivere una commedia delle sue. Ecco, quello vorrei scrivere. Ho visto poco tempo fa Midnight in Paris ed è stata una vera goduria. Non solo perché è pieno di riferimenti alla cultura visiva, c’è Buñuel, c’è Dalì, e questo mi riguarda molto da vicino. Ma anche perché lui ha la commedia nel sangue. Nei suoi film tutto succede al momento giusto, una porta si apre quando si deve aprire, l’amante arriva quando deve arrivare. Come hanno sempre spiegato i grandi commediografi, la commedia è un gioco che deve avere un meccanismo a orologeria, delle regole precise da rispettare, e Woody, nonostante sia un grande maestro, o forse proprio perché è un grande maestro, queste regole le rispetta sempre. Di fronte a Woody Allen mi sento un po’ come Borges quando diceva che avrebbe voluto scrivere il Don Chisciotte esattamente come lo aveva scritto Cervantes. Io ritengo Allen il più grande commediografo vivente.

E perché non fai un film alla Woody Allen?
Perché Napoli non è una città che si presta a quel tipo di film. Per fare un film alla Woody Allen ci vuole una borghesia colta…

Mentre tu sei abbastanza insofferente verso la borghesia napoletana…
Quella napoletana è una brutta borghesia. La nostra città vive una difficile condizione perché non ha una classe dirigente seria. Ed è la borghesia a fornire la classe dirigente! Si, ho un risentimento profondo verso la borghesia napoletana. È incolta, arrogante, parassitaria.

Tornando a Pianese Nunzio, il finale, con la Via Crucis e questo prete che si dona come Cristo, è tra le pagine più belle della filmografia napoletana recente.
Devo dire che quella sequenza mi è venuta davvero bene. Ricordo che all’epoca lo scrittore Luigi Compagnone, mio amico (un’altra aquila malata che da Napoli non ha mai voluto andarsene), aveva scritto una sua Via Crucis. Gli chiesi se potevo usarla nel mio film e lui mi disse di sì, e infatti nei titoli di coda del film lo ringrazio.

Il tuo cinema è dunque pieno di una Napoli popolare. La borghesia si affaccia solo ne La guerra di Mario e più tardi, ne L’amore buio, sembra quasi che tra la
borghesia e il proletariato si tenti un dialogo.

In questo mio ultimo film si parla di una enorme difficoltà di comunicazione. Ci tengo a dire che i lati negativi e le responsabilità di questa situazione esistono in tutte le parti della città, perché anche quella proletaria e sottoproletaria non ha minimamente interesse a dialogare con l’Altro e ogni forma di rifiuto della comunicazione ha in sé qualcosa di negativo, anzi di orribile. Una società che non comunica soffre, si masturba, si contrae e produce malessere, divisioni, inimicizie e violenze. Per tornare a L’amore buio, mi andava di raccontare questi due mondi che rifiutano la comunicazione, e parlare anche di quel pezzo della città, mi riferisco a certa media borghesia napoletana, che non conosce affatto la città in cui vive.

E quindi c’è bisogno di uno stupro per avviare la comunicazione…

Uno stupro metaforico tra due mondi, un impatto violento per capire che si è fatti tutti della stessa carne, che si è meno diversi di quello che si immagina. Il Lello che mi ha raccontato la sua storia ha imparato a leggere e scrivere in carcere. Questa cosa mi ha sconvolto. Ancora di più se penso che poi ha trovato la capacità di scrivere poesie d’amore. È chiaro che una storia così, io poi voglia raccontarla in un film…

Pensi che Napoli, da questo punto di vista, sia oggi un caso a sé?

Credo che il sottoproletariato di Napoli riesca ancora oggi a produrre una cultura in piena autonomia. Nonostante ci siano telefonini e televisori ovunque, c’è ancora un nucleo di cultura molto forte, con un teatro, una musicologia, un’organizzazione dei testi, un particolare modo di esprimersi, di vestire. Al tempo stesso mi chiedo cosa abbia prodotto negli ultimi anni la borghesia napoletana. Gomorra, che è un gran libro, quale cultura racconta? Quella più forte. La stessa che a me viene spontaneo raccontare nei miei film.

Nel finale de L’amore buio vediamo i due ragazzi che si incrociano con lo sguardo e col pensiero, ma a migliaia di chilometri di distanza: mentre lui esce dal carcere di Nisida, lei sta a New York. Come dobbiamo leggere questa sequenza?
Lui esce dal carcere e lei è lì, anche se si trova a 15.000 chilometri di distanza. La loro vicinanza è tanto più forte proprio perché avviene a 15.000 chilometri di distanza. Per renderlo, ho girato le due scene con la stessa luce, ed è qualcosa che al cinema non si è mai visto.

Quella scena, dunque, non simboleggia l’impossibilità di incontrarsi nella realtà.
No, non direi: la metafora nella poesia è più forte del realismo, muove le montagne.

Per il resto il tuo cinema è carico di realismo. Forse il film più particolare è Polvere di Napoli.
Polvere di Napoli è un film molto personale. Sono partito per fare un film divertente, e infatti c’è dentro quel surrealismo che pure fa parte di me, come accennavo prima. In Polvere si vedono delle giraffe, per esempio. Mi avevano già costruito addosso un cliché, la critica e di conseguenza il pubblico. Con quel film ho cercato di abbatterlo.

Parliamo di Giallo?, questo tuo penultimo film «invisibile». Di cosa parla?
Il «problema» di Giallo? (col punto interrogativo) è che è diverso dal resto del mio cinema, perciò spiazza lo spettatore. È come quando tu decidi di andarti a fare uno spaghetto a vongole e quando arrivi al ristorante ti dicono che le vongole sono finite. C’è un fantastico gatò di patate, ma tu volevi le vongole, e non importa che davvero quel gatò sia buonissimo! Per Giallo? siamo partiti dalla costruzione di una casa, quella in cui vive un anziano fioraio di circa settant’anni, da solo, in una città grigia, che avevo immaginato al centro dell’Europa. Poteva essere Vienna, Varsavia, ma per quella caratteristiche di città asettica e ortogonale poteva andare bene anche Torino, dove abbiamo poi girato gli esterni. Quest’uomo ha il televisore sempre acceso e passa il tempo in silenzio. Si prende qualcosa da mangiare in rosticceria e cena da solo dopo una giornata di lavoro e solitudine. Finché inizia a vedere nel televisore qualcuno uguale a lui, che fa le stesse cose che fa lui. A un certo punto il doppio della tv si porta una pistola alla tempia e gioca alla roulette russa. Una, due, tre sere. La quarta esplode il colpo e il suo tappeto si riempie di sangue. Il vecchio fioraio va a dormire e il mattino dopo si sveglia trovando il tappeto insanguinato. C’è del giallo in questa trama e da qui il titolo…

A proposito di tv, nei tuoi film è molto presente: sta lì che vomita immagini, spesso inquadrata in primo piano. Perché così tanta?
Perché nel nostro quotidiano la televisione è molto presente e anche il nostro immaginario le deve molto. Noi siamo anche molta tv.

In Vito e gli altri, ad esempio, c’è la scena della violenza sulla ragazzina che avviene in cucina, dove il televisore acceso trasmette Beautiful: c’è quindi una valenza espressiva e simbolica ben precisa?
La tv è talmente monumentale, è diventata un oggetto talmente preponderante che spesso in alcuni tipi di organizzazione familiare è lei che comanda, tutti ascoltano la tv e guai a chi parla.

Sempre in Vito e gli altri uno dei bambini dice: «La televisione è più importante della mamma».
Il mio cinema è come uno specchio: se sei brutto ti disturba. Io ho mostrato un tipo di realtà a cui tutti noi vorremmo non pensare. Per quanto sia una realtà che frequentiamo tutti i giorni, quando te la mostro e ti stimolo a riflettere ti provoca fastidio. È disturbante perché ti mette di fronte a te stesso. E di fronte a se stessi ci si sente nudi.

Paradossalmente la tv può essere l’elemento che congiunge i due mondi di cui parlavamo prima, nel senso che la stessa televisione entra in una casa proletaria quanto in una borghese.
Questo è vero: nella stessa serata tutti guardiamo Il grande fratello, Amici, tutte queste puttanate qua, o le fiction, quelle che una volta si chiamavano telenovelas, di cui Vito e gli altri è pieno. Però nonostante si cibino dello stesso pasto della borghesia, il proletariato e il sottoproletariato producono ancora un gesto culturale forte e autonomo. Guarda che consapevolezza, che forza! che muscolatura, che coraggio! Il borghese no, si mette scuorno, vuol fare una cosa tale e quale ad Amici o a Dynasty. Non fa che produrre una cultura ripetitiva. In realtà non è nemmeno compito della borghesia la produzione del gesto. Il borghese deve, ed è quello che manca a Napoli, organizzare i segni, istituzionalizzarli, organizzare il consenso (per usare una brutta espressione) attorno a essi, museificarli, progettare i posti dove si va a guardarli… La borghesia ha un compito di catalogazione, a volte anche di decodificazione dei segni. Ma sono gli artisti che devono produrre il gesto.

Nel caso del proletariato vengono prodotti dei segni forti, che però sono uno sfregio estetico. È «cultura» perché è antropologi
camente collocata, però dal punto di vista estetico risente della mancanza di riferimenti.

Dal punto di vista estetico certamente gli mancano dei canoni, anche proprio di sottocultura, ciononostante è quello il gesto che ancora ci stimola. Se ci riflettiamo, è pazzesco come una cosa così orrenda come la delinquenza organizzata sia in tutto il mondo argomento per film e romanzi.

A proposito di malavita, tu con Luna rossa hai provato una narrazione molto originale della camorra…
A me dà fastidio quando il cinema e la letteratura propongono questi temi in una maniera accattivante, sinistra, in una maniera equivoca.

Che cosa intendi?
Se vai a Ponticelli, se vai nei quartieri dove i ragazzi devono inventarsi la vita, lo vedi a che cosa si richiamano: la delinquenza è una scorciatoia molto rapida, che ti dà subito soldi, notorietà, femmine, successo. Sì, ma ti ammazzano a vent’anni, è l’obiezione. Ma anche quella è una stronzata borghese: perché, se muori a settant’anni non è uguale? Sennò, qual è l’alternativa? Vai a scuola, finisci il liceo a diciassette anni, poi fai cinque-sei anni di università e non sei nessuno, poi devi fare il dottorato e non sei nessuno, poi devi fare un master e non sei nessuno, arrivi a trent’anni e devi cominciare a fare la filiera per cercarti un padrino, e poi magari se sei uno bravo, se sei un figlio di…, a quarant’anni cominci a essere qualcuno che gode di un certo rispetto da parte della società. Quelli invece fanno subito!

E in questo secondo te il cinema ha delle responsabilità?

Certo. È brutto che un certo cinema americano, anche di valore, vedi Scorsese, faccia interpretare questi delinquenti ai grandi attori come De Niro e Al Pacino perché il pubblico, i guagliuncelli, nei grandi attori si riconoscono. Ecco perché con Luna rossa ho voluto fare un film diverso, in cui i camorristi fossero ritratti per quello che sono: persone che fanno una vita di merda, che si violentano, si tradiscono e si ammazzano tra di loro. Come la famiglia camorristica a cui mi sono ispirato, la famiglia dei conigli, i cui membri si sposavano tra di loro. Ma il pubblico non ha capito bene questo messaggio…

Il problema forse è la non-preparazione del pubblico ad accogliere un film come questo, così lontano da quel cinema americano che ha edulcorato il mondo della malavita.
Ma io sapevo che era uno svolgimento del tema «perdente»: probabilmente lo spettatore ha bisogno di qualcosa di più… addomesticato.

In Luna rossa hai voluto aumentare la distanza, anche attraverso il richiamo alla tragedia greca.
Sì, in Luna rossa c’è una struttura che segue la falsariga dell’Orestea. La mia intuizione era che queste grandi famiglie di camorra potessero assomigliare ai grandi archetipi della tragedia, in cui tutti si odiano, il sangue si mischia al sangue, avvengono gli accoppiamenti contro natura, e tutto diventa marcio. All’inizio infatti il titolo avrebbe dovuto essere Orestea ma poi mi sono detto: chi mai andrà a vedersi un film che si chiama Orestea?! Luna rossa me l’ha suggerito Carlo Cecchi, raccontandomi che il giorno in cui morì suo padre, lui stava accanto al letto dove era disteso il corpo, proprio poche ore dopo la morte, e da una finestra aperta gli arrivarono all’orecchio le note di Luna rossa. In seguito Toni Servillo mi ha rimproverato di non aver tenuto il titolo originario.

Nel film sembra che tu abbia voluto mantenere un certo distacco nei confronti di quei personaggi, come se il loro «schifo» dovesse venir fuori da sé.
Non mi piace calcare la mano. Cerco di conservare sempre una posizione quasi acritica, la mia osservazione deve essere quanto più possibile oggettiva.

Ti sei mai ritrovato, tuo malgrado, nel cliché del regista anticamorra e ti hanno mai «rotto le scatole» per questo?
La camorra non è ideologica, la camorra fa affari: se le conviene uccidere qualcuno lo fa, se non le conviene no. Non sono ideologici, per questo vincono e noi perdiamo.

L’unica ideologia che conoscono è quella del denaro. E quindi un libro o un film quanto possono incidere?
Ci vogliono mille film, un milione di film…

I bambini, come detto, i ragazzi in generale, sono sempre protagonisti dei tuoi film. Come lavori concretamente con loro?
Amo lavorare con i ragazzi. Marco [il protagonista de La guerra di Mario, ndr], per esempio, è stato eccezionale. Lui non imparava la parte, sul set io gli facevo da suggeritore e lui ripeteva le battute. Aveva solo otto anni ma era intelligentissimo. Capì che nelle scene di dialogo con Valeria Golino, quando inquadravo Valeria lui poteva anche non essere presente, così mi diceva: «Dài, Antonio, mettiti tu al posto mio».

Come l’hai scelto?
Mi colpì molto già per come entrò nella stanza dove facevo i provini: teneva la testa bassa, senza guardare. Gli chiesi di recitare il piccolo testo che gli avevo dato da imparare prima, ma lui, sempre con gli occhi bassi, mi rispose che non se l’era letto. Lo esortai a guardarmi negli occhi ma lui mi rispose che poteva ascoltare con le orecchie! Mi piaceva molto quell’atteggiamento spavaldo. Allora m’inventai una frase semplice al momento e gli chiesi di ripeterla. Ma lui invece mi disse: «Io sono qui controvoglia, il tizio dietro la telecamera mi è antipatico perché è grasso e quella finestra mi dà fastidio, la posso chiudere?» [in napoletano, ndr]. Si alzò e andò a chiudere la finestra. Io finsi di incazzarmi e lo rimproverai. Lui allora alzò gli occhi e mi sorrise: «Sto improvvisando». Voi non l’avreste preso?

Quindi gli hai lasciato molto spazio per improvvisare?
Sì, nelle scene con la psicologa, per esempio, fa dei movimenti, dei gesti che non erano in sceneggiatura.

In generale quanta libertà lasci agli attori sul set?

Se capisco che l’attore è un artista lo lascio fare, come nel caso di Marco. Di solito gli attori sono molto professionali. Valeria la rimproveravo, in maniera scherzosa, e le dicevo: «Vuoi diventare una grande attrice? Impara da Marco, lasciati andare!». Toni Servillo, per esempio, ha una grande disciplina, un rispetto per il testo enorme, lo studia, lo ripete all’infinito, però non si allarga, non osa…

Perché non hai più lavorato con Servillo dopo Luna rossa?
Semplicemente perché non è capitato. Spero che succeda in futuro. Lui mi piace anche perché è rimasto a vivere a Caserta, è uno dei pochi ad aver fatto una scelta di questo tipo.

Dal punto di vista stilistico l’impressione è che tu stia andando sempre più verso un’asciuttezza.
Sì, l’orpello non mi interessa, e anche al montaggio tendo sempre più all’essenzialità.

Pianese Nunzio era un film barocco…
Sì, Pianese aveva una veste pienamente barocca: i santi, le chiese, la Sanità, il piperno, il bianco e nero, il finale sotto la pioggia… D’altra parte quelli erano i tempi [1996, ndr] del «barocco esistenziale» napoletano teorizzato da Jean-Noël Schifano…

Subito dopo la
tua generazione, quella di Martone, Corsicato, Incerti, il gruppo dei vesuviani per intenderci, è nata a Napoli una nuova generazione di autori, quella di Marra, Patierno, Olivares. Loro descrivono una Napoli molto dura con film molto severi. Perché anche loro hanno continuato a raccontare la città in questo modo così? Forse è l’unico modo in cui la si può raccontare?

Beh, quando un cinema ottiene un po’ di visibilità, forse per chi viene dopo certe cose diventano un po’ automatiche. Però Napoli è una città che ha mille aspetti. A me piacerebbe raccontare anche la borghesia, per esempio, ma per raccontare una cosa bisogna amarla, io invece la borghesia la detesto…

Forse la vera sfida oggi potrebbe essere quella di raccontare Napoli come città ideale, proporre uno sguardo profetico…
Sì, ma ci deve sempre essere qualcosa che ti acchiappa. È sempre la vita che ti suggerisce e ti suggestiona. Anche La guerra di Mario, per esempio, viene da una storia reale: è la storia di una mia amica, che alcuni anni fa tentò un affidamento di un ragazzino poi naufragato, proprio come è raccontato nel film. Poi il film li ha riavvicinati. Dopo averlo visto, il ragazzo, che in realtà si chiama Ciro, l’ha chiamata e ora si vedono, anche se lui continua a vivere con un’altra famiglia.

Tu hai lavorato per anni come scenografo, poi a un certo punto hai deciso di fare il regista. Perché?
Semplice: non mi piacevano le sceneggiature che leggevo. Da scenografo ne ho lette tante, sia per il cinema che per la televisione, e spesso mi ritrovavo a rompere le scatole ai registi e agli sceneggiatori. Quando venne fuori la storia di Vito, mi dissi: ora ne scrivo una io!

Quanto è difficile fare un film oggi in Italia?
Per me lo è stato sempre, sin dall’inizio: Vito e gli altri è stato molto apprezzato, ma era un film difficile, per me ha rappresentato una palla al piede. D’altra parte i miei film hanno sempre incassato poco. Oggi a maggior ragione, con la crisi, lo Stato che ha ridotto i finanziamenti, e la Rai che ha cambiato un po’ di cose, è diventato ancora più complicato.

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