La sezione Orizzonti di Venezia 68 apre le porte a O le Tulafal di Tusi Tamasese, confermandosi, anche quest’anno, lo spazio di nicchia del Festival più attento e sensibile ai nuovi sguardi delle cinematografie emergenti. Questo film testimonia inoltre l’esistenza di una vitalità creativa sommersa, troppo spesso emarginata dal mercato distributivo internazionale, la cui visibilità è affidata unicamente al traffico dei circuiti festivalieri.
The Orator, rappresentante samoano della Mostra, pecca senza alcun dubbio, sul piano dello stile, di una autorialità superba, un po’ “chiusa” e autoreferenziale, ma pare ugualmente esprimere l’urgenza di raccontare l’identità di un popolo semisconosciuto, pre-storico, tradizionalista e molto religioso.
Sahili è un coltivatore di patate, nano e claudicante, che vive a Samoa in un villaggio isolato. E’ sposato con Vaiiga, una donna ancora giovane costretta ad abbandonare la terra natia per aver disonorato la famiglia. Sahili ha un’ossessione: deve fare in modo che le tombe dei genitori rimangano lì dove si trovano, nel terreno comune delle piantagioni, nonostante le minacce e i dispetti dei vicini. Un giorno il fratello di Vaaiga intima alla sorella di fare ritorno a casa, convinto che  le cause dell’infezione alla gamba abbiano origini soprannaturali, che siano dovute alla punizione degli dei per il mancato ricongiungimento con i parenti dopo la giusta condanna all’esilio, ma ella si oppone per rimanere vicino alla figlia e a Sahili, marito acquisito, per cui nutre un innato istinto di tenerezza. Nonostante il loro sia un nucleo familiare anomalo, infatti, tra i tre personaggi esistono forti legami di affetto, solidarietà e protezione, come si può notare nella sequenza in cui il piccolo storpio decide di affrontare a colpi di pietre un violento energumeno e i suoi due complici, colpevoli di avere importunato la figliastra e di infangare così il buon nome della famiglia. Mentre il capo villaggio, ormai vecchio e stanco, ha deciso di passare il testimone proprio a Sahili, Vaaiga si ammala e muore lentamente. Dunque il fratello, accecato dalla superstizione, rapisce il corpo della donna per sistemarlo accanto agli altri parenti defunti: Sahili, profondamente devoto al culto dei morti, dovrà quindi convincere il cognato con le sole armi che ha a disposizione, cioè quelle del cuore, a restituire le spoglie della compagna, per sistemare la lapide vicino a quella dei genitori.
Attraverso lunghe inquadrature a macchina fissa e lentissimi piani sequenza, che registrano la quotidianità del villaggio samoano, Tamasese restituisce una percezione del tempo dilatata e naturalistica, tratto specifico, forse fondante, di una cultura: in sintonia con la rotazione dell’asse terrestre, col sorgere e il calar del sole e con il mutare delle stagioni, gli esseri umani di Samoa vivono il qui ed ora dell’esistenza, accettandone l’inevitabile divenire. In questo modo, il valore tragico, ed anche economico, attribuito alla morte dalla cultura occidentale, per cui la scomparsa di un individuo, nel linguaggio della produzione, è anche sinonimo di “perdita” di beni, averi e ricchezze di ogni genere, oltre che di sentimenti, si annulla radicalmente per lasciare spazio al non-valore dell’accettazione: “La morte sta sempre al mio fianco, non mi abbandona mai né in casa né fuori” dice Sahili con placida rassegnazione. Nella cultura samoana la morte è un continuum che assume le forme di una religiosità superstiziosa e animistica associata alle categorie tribali dell’appartenenza e dell’intervento divino sul destino dell’uomo: i defunti devono giacere vicino ai loro parenti ancora in vita all’interno del villaggio in cui sono cresciuti, a contatto con la comunità d’origine. Il principio etico del perdono assume dunque valori sociali e politici allorquando disciplina i codici comportamentali dei singoli: pensiamo, ad esempio, al gesto di penitenza cui si sottopongono gli aggressori dell’inerme Sahili, inginocchiati per giorni interi dentro un sacco di iuta, davanti alla sua dimora, per chiederne misericordia.
Nel film di Tamasese il racconto della Tradizione apre delle inattese parentesi comico surreali, racchiuse quasi tutte all’interno di un terreno incolto adibito a campo da rugby, che diventa teatro degli assurdi soliloqui di un allenatore perdente e dei goffi allenamenti dei suoi uomini. Ma l’eccessivo rigore formale della regia e l’attenzione certosina per la messa in quadro di tutte le componenti dell’immagine, comunque dimostrative della grande sensibilità figurativa del regista, finiscono con l’estenuare e col narcotizzare quel che c’è di vivo e di vibrante nel racconto di una cultura arcaica senza di tempo, accompagnata dalla storia intima, dolce e misteriosa di Sahili, uno, fra gli “ultimi”, a non chiedere il miracolo della guarigione.

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