Guillermo Arriaga debutta alla regia con il suo primo lungometraggio, The Burning Plain, in concorso alla Mostra, film nel quale ritroviamo tutti gli elementi distintivi dello (ex) sceneggiatore dei film di Iñarritu, da Amores Perros a Babel.

Sylvia, una straordinaria Charlize Teron, manager di un ristorante di Portland, guarda nuda fuori dalla finestra della sua stanza e vede davanti a sé il suo passato, un passato di colpa e peccato dal quale è fuggita senza mai riuscire a liberarsene. Nel suo passato c’è la morte tragica di sua madre (Kim Basinger) e del suo amante bruciati in una roulotte in mezzo al deserto del New Mexico, c’è il suo amore “sbagliato” proprio per il figlio dell’amante della madre, e c’è Maria, la figlia che ha abbandonato due giorni dopo averla partorita, cresciuta da sola in Messico col padre, pilota di aerei per la disinfestazione delle piantagioni. Come nei precedenti film da sceneggiatore, anche in questo caso ci troviamo di fronte a storie parallele che si incontrano, si sfiorano, si intrecciano indissolubilmente, con una struttura spazio-temporale del racconto complessa e non lineare. Arriaga racconta tutte queste storie attraverso una struttura solida che salta da un luogo e da un tempo all’altro con estrema delicatezza, fino all’epilogo finale in cui le diverse storie si incontrano e trovano un senso.

E’ un film questo sulla colpa e sull’autostima, sulle cicatrici del cuore che ci portiamo dentro e si tramandano di generazione in generazione, di madre in figlio. Le colpe, nella vita, possono essere bruciate o “disinfestate”, ma rimangono intatte e si trasformano in una cicatrice indelebile, proprio come quella che i due giovani amanti si procurano volontariamente per non dimenticare il giorno in cui si sono incontrati e amati. Le uniche vie di salvezza sono l’amore e il perdono, sembra suggerirci Arriaga, capaci di riconciliarci con il mondo, ma prima di tutto con noi stessi. Attraverso le vicende parallele della madre e della figlia, Sylvia riuscirà alla fine del film a ritrovare la propria identità, misconosciuta e violentata, e a fare i conti con quel passato da cui era fuggita, ma soprattutto sarà capace, attraverso sua figlia Maria, di espiare le colpe derivate dal suo complesso rapporto con la madre. Il cerchio si chiude. Per rappresentare il tutto il regista è ricorso ai quattro elementi del fuoco, dell’acqua, dell’aria e della terra: le terre assolate e brucianti del Mexico e del New Mexico, riprese con campi lunghissimi, a sottolinearne la valenza di frontiera, che è dei luoghi, ma anche dell’anima, delle scelte e delle conseguenze che comporta; il fuoco, rappresentato dal rogo della roulotte che è la sequenza con cui si apre il film, che brucia ma non riesce a cancellare, l’acqua che lava, ma non purifica.

La regia di Arriaga è molto delicata, lontana dalla veemenza della macchina da presa di Iñarritu; la telecamera sembra accarezzare le storie e i personaggi che il regista ci presenta scavando a fondo negli sguardi, nei silenzi, nelle emozioni. Anche il montaggio presenta questa dimensione piana, il passaggio da una storia all’altra avviene non per scarti violenti, ma quasi per dissolvenza, fino ad una vera fusione, come nel finale quando, un attimo prima di entrare nella stanza d’ospedale dove è ricoverato il suo uomo, Sylvia ripercorre tutte le tappe fondamentali della sua vita, e il montaggio unisce simbolicamente tutti i protagonisti, che meditano sulla propria vita che si distende davanti al loro sguardo, dietro il vetro della finestra o oltre la portiera dell’auto. L’interpretazione sia di Charlize Teron che di Kim Basinger è intensa e straordinaria, piena di frasi e gesti interrotti, di non detti, come i loro personaggi, sospesi tra l’anelito di vita e il peso che comporta abbandonarsi ad essa. Dopo essersi confermato sceneggiatore di razza, Arriaga dimostra di essere anche un grande regista riuscendo a governare abilmente una storia complessa ma convincente. E, soprattutto, emozionante.

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