Cos’è che vi aspettate, quando andate al cinema?

Siete di quelli che vogliono la storia, immaginifica o verosimile che sia? Pensate che il cinema sia un’arte che non ammette rotture di diaframma tra sé e altri contesti rappresentativi?

Per alcuni, ad esempio, il teatro riprodotto sul grande schermo è l’antitesi della cinematografia e per questo deve essere sdegnosamente respinto. Che se ne occupi la televisione, semmai. Magari è vero: certe prove, un certo modo di recitare, ci risultano stucchevoli oppure troppo stridenti quando dal teatro vediamo i testi traslati pari pari nel cinema. Tuttavia, alla pur sacrosanta obiezione si può ancora ribattere «Dipende».

Nella sua Venere in pelliccia, Polanski prende la pièce di David Ives, il quale a sua volta si era ispirato all’originario romanzo di von Sacher-Masoch, e la trasforma in un congegno narrativo di grande impatto che è al tempo stesso parodia, metafora, trasfigurazione, eccitamento. Restituendo la domanda ai dubbiosi, si tratta di teatro o di cinema? Ebbene, l’ambientazione e il soggetto sono ancora teatrali. Il linguaggio decisamente no. Ed è proprio questo linguaggio, nella sua accezione più squisitamente cinematografica, che dona realismo alla finzione. Ma Polanski fa qualcosa di più.

Fin dal primo momento il regista gioca con lo spettatore, seducendolo, sviandolo di continuo da ciò che crederà che sia e invece all’improvviso non è più, offrendogli l’ovvio e trasformandolo, trascinandolo nella finzione di una finzione, ipnotizzandolo, confondendogli le idee (con l’intento di smascherarlo?), sprofondandolo dentro una spirale ossessiva di richiami erotici a una sessualità sempre più ambigua. Polanski lo dichiara apertamente, il suo gioco, a partire dal lungo piano sequenza con cui si apre il film e che conduce i vostri occhi, dietro gli occhi di qualcun altro, lungo una strada tra alberi spogli, sotto un cielo plumbeo scosso da tuoni, davanti all’ingresso del teatro, luogo della storia. Suo complice perfetto è l’accompagnamento musicale, che anche questa volta è affidato ad Alexandre Desplat, artefice insieme a Polanski di questa raffinata architettura.

Note di pianoforte incedono insieme a quella prima soggettiva cadendo come gocce d’acqua; giungono delicate ai vostri orecchi ma, con la musica, un alone di mistero crescerà fino a marcare una sospensione, un muto interrogativo, un respiro trattenuto nel momento in cui la porta del teatro si aprirà come sotto un incantesimo e tutto avrà inizio. Scopriremo che gli occhi che per pochi attimi ci sono stati prestati appartengono a Wanda, personaggio femminile – tanto della commedia quanto del film – interpretato da una mirabile Emmanuelle Seigner. Vedremo questa donna, non più giovane come vorrebbe il regista teatrale della finzione-dentro-la-finzione e neppure elegante né distinta, anzi semmai sguaiata e periferica, una volta indossato l’abito di scena diventare di colpo la sensuale e aristocratica figura disegnata da Masoch e desiderata da David-Thomas, il personaggio maschile anch’esso doppio  interpretato da Mathieu Amalric (e Amalric assomiglia troppo a Polanski per non pensare anche a un ulteriore gioco di specchi). Assisteremo con morbosità crescente alla manipolazione inizialmente contrastata poi via via sempre più consapevole e desiderata di Thomas. Verremo sedotti dall’ambivalenza della sguaiata Wanda-donna e della sofisticata Wanda-personaggio. Ci sentiremo attraversare dalla spinta erotica che sale da questo film, dalla sensualità che non è solo del corpo trasfigurato di Wanda ma anche della sua insospettabile, acuta, maliziosa intelligenza. Saremo posseduti insieme a Mathieu dalla virago che sorge e ci chiederemo cosa alberga nel cuore e nella mente della nostra compagna, come vede l’uomo che le siede accanto, quali giochi le piacerebbe fare con lui. Saremo colti dal dubbio o dal rimpianto o dal rimorso di desideri soffocati troppo a lungo cui sarebbe stato meglio non sottrarsi. Attraverseremo una serie di porte le cui serrature scatteranno implacabili come trappole. Resteremo muti e allibiti davanti alle successive metamorfosi del principio maschile a noi rappresentato, chiedendoci se possiamo davvero stabilire una volta per tutte un nord e un sud, una polarità rassicurante quando da tempo abbiamo seppellito il problema. E infine, di fronte all’ultima trasformazione di Wanda da donna a dea della vendetta, lo sguardo febbricitante di Thomas sarà lo sguardo sul quale ogni uomo in sala – e ogni donna – non potrà non porsi le sue domande.

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One thought on “Venere in pelliccia di Roman Polanski

  1. Bella riflessione! Mi piace la visione metamorfica e trasformativa del desiderio e delle relazioni che evidenzi. Anche se io nel film ci ho visto più una presa in giro della femminilità, prima, e del femminismo, dopo. Ma il film è ambiguo e dicendo questo già gli si concede un credito aperto.
    Vorrei aggiungere una lettura, sicuro azzardata!, sulla scia di letture freudiane: “… la fissazione all’oggetto un tempo intensamente desiderato, il pene della donna (il seno della madre di Leonardo da Vinci, in questo caso, e la scoperta del piccolo Leonardo che la donna-madre non ha un pene come l’uomo), lascia tracce indelebili nella vita psichica del bambino che abbia compiuto con particolare profondità quella parte dell’esplorazione infantile. Nei feticisti, pare che la venerazione del piede e della scarpa femminile consideri il piede unicamente un simbolo sostitutivo del membro della donna, una volta venerato e da allora rimpianto…”, dal “Leonardo” di Freud.
    Non è che il narcisismo e feticismo di Polanski (che al suo posto mette anche un suo sostituto giovane, una vera e propria replica della sua stessa persona da lui, in passato, probabilmente molto amata), e il suo (anche in altri film passati) travestitismo e scambio di ruoli, al fondo fondo poggia su un desiderio omosessuale? Nel caso Polanski ci starebbe ancora più simpatico, beninteso. Però, fosse anche solo in parte così, per arrivare ad avverare questa pulsione nell’arte quanta manipolazione (e altre volte sofferenza) finisce per infliggere alle sue attrici!
    Ma il discorso così lo si riduce mentre è (o almeno potrebbe esserlo) molto più complesso, me ne rendo conto…

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