di Fabrizio Croce/Nico: An undergound experience è il titolo di un film concerto  che offre la rara opportunità di vedere l’iconica cantautrice, attrice, modella e musa ( dei Velvet Underground, certo, ma anche di tutta la controcultura artistica e musicale fiorita nella New York della seconda metà degli anni ’60 e degenerata nella cupezza distruttiva degli anni ’70) nelle esibizioni live  che ha portato avanti fino alla prima metà degli anni ’80, portando su palcoscenici più anonimi e meno scintillanti di quelli calcati  con Lou Reed e John Cale, i segni impietosi e lividi di un corpo e di una psiche segnati dall’abuso di eroina,  sempre e comunque sostenuta da una presenza di intensità e drammaticità conturbante e ipnotica.

Ricordo che acquistati il Dvd di questi concerti su Amazon in un’edizione francese in quanto mai distribuito e circolato in Italia  e insieme ad un amico, anche lui devoto di questa dea infernale a cui Fellini, in una memorabile apparizione tra le creature del carosello umano de La Dolce Vita  fa rispondere  di essere “eskimese” a un sedotto e straniato Mastroianni, decidemmo di dedicarle una visione a notte fonda, come si addice a un personaggio della sua natura. I concerti, illuminati in una chiave di forti chiaroscuri dove la figura di Nico inghiotte tutto nell’abbigliamento e nella capigliatura rigorosamente neri, si alternavano a delle brevi interviste in cui il vocione, anch’esso scuro e profondo di Christa Paffgen,suo nome all’anagrafe,risponde tra lo svogliato e il sarcastico, con momenti di assenza e disconnessione, alle domande non particolarmente fantasiose di giornalisti che la vorrebbero trapassata e rassicurante icona, in quanto comprensibile e storicamente identificabile, di una stagione e di un disco, senza dubbio epocale, del pop psichedelico, in grado di ripetere esclusivamente le tre canzoni che interpretava con i Velvet e in particolare quella che si presta alla più ovvia e facile delle allusioni e degli ammiccamenti, Femme fatale.

No, negli anni ’80 Nico non aveva più voglia di rispondere alle domande su un’epoca gloriosa ma breve e  e nelle risposte evasive e annoiate delle interviste all’interno del suddetto Dvd  rivendica , con un senso a volte brutale e a tratti disperato di perduta(si, ma per scelta e per rischio) aristocrazia lo status di musicista con un preciso e segnato percorso, come si evince leggendo i titoli della sua discografia solista, da Chelsea Girl passando per The Marble Index e Desertshore fino all’ultimo Camera obscura: un viaggio, con pochi e selezionati compagni al suo fianco come John Cale, anima avanguardista e sperimentatrice dei Velvet e  vero mentore musicale di Nico, e come Philippe Garrell,il cineasta francese che fu suo compagno di vita e regista o, meglio, sguardo e riflessione appassionata sulla sua figura mitica già all’inizio degli anni ‘70  (la cicatrice interiore, il loro primo memorabile e rarissimo film insieme di cui si trovano dei frammenti su youtube, è del 1972).E sempre a Lei Garrell dedicherà successivamente alla sua prematura e assurda morte ( a 49 anni, per una caduta dalla bicicletta mentre si trovava in vacanza a Ibiza), lo struggente dittico cronoca di un’ossessione Non sento più la chitarra e Innocenza selvaggia.

Con questo senso di devozione per il personaggio a cui si ispira e di curiosità per il tipo di operazione che è stata realizzata su una figura di tale portata e complessità,  sono andato a vedere questo Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli , con l’idea che si trattasse di un documentario , un montaggio delle immagini di quel repertorio decadente ed oscuro del suo ultimo decennio di vita, durante il quale era stata senza volerlo  l’anima nascosta ed anarchica del movimento dark esploso proprio in quegli anni come un fenomeno capace di dare forma e suono alle angosce esistenziali di tanti adolescenti affamati di musica, con capostipiti le canzoni struggenti, esistenziali, profonde e macabre dei Cure di Robert Smith.

Invece la Nicchiarelli, conosciuta precedentemente per due curiosi e personali film con al centro personaggi femminili che vogliono infrangere gli schemi ( la ragazzina comunista che non  vuole fare la prima comunione in Cosmonauta e la figlia che tenta di salvare il padre parlando alla se stessa bambina nel curioso thriller fantastico La scoperta dell’alba) , sceglie la strada più rischiosa del film di fiction affidando, dunque, un corpo, un volto e una voce altri alla Nico di quel periodo che a me, impressa nelle immagini sgranate del nastro riversate in Dvd, appariva ancora più irripetibile e inrappresentabile dell’epoca blonde e fatale dell’album con la banana disegnato da Andy Warhol.

La scelta dell’attrice-cantante tedesca è ricaduta per altro sulla cantante-attrice danese Trine Dyrholm, che a fatica ho riconosciuto come interprete feticcio del cinema sentimentale e lezioso di Susanne Bier (In un mondo migliore e Love is all you Need).

Mantenendo intatta la mia devozione e la mia percezione di irripetibilità di Nico, non si può negare la gran prova della Dyrholm in particolare nelle sequenze dei concerti dove coraggiosamente canta con la sua voce, probabilmente anche meglio dal punto di vista tecnico di quello che Nico riusciva a fare in quegli anni così a ridosso dalla morte , visto che l’arco del racconto è articolato sugli ultimi tre anni (1986, 1987 e il 1988) , ma ne restituisce una forza, un ‘intensità, una profondità tanto vicina alla devastazione che la vera Nico riusciva a trasmettere stando al centro di un palcoscenico, anche immobile, muta e con lo sguardo vitreo, come avrebbe  fatto molti anni dopo, e bruciandosi prima dal punto di vista anagrafico, l’Amy Winehouse  sopraffatta dal dark side of the moon della sua vita a soli 24 anni.

Tornando al film della Nicchiarelli , sostanzialmente vibra in questi momenti live e delle perfomance della Nico creata dalla Dyrholm ( davvero memorabile la sua interpretazione di My heart is empty durante un concerto clandestino in Russia mentre è dilaniata da una crisi di astinenza, che è anche la sequenza più bella ed emozionante  del film), visto che per il resto la struttura narrativa procede molto convenzionalmente e in maniera non proprio organica visto che pur seguendo una divisione in tre parti quasi tre quarti del film sono occupati dagli avvenimenti accaduti nel 1986 e si riduce al minimo lo spazio dato agli ultimi due anni, in particolare il 1987.

E anche le figure che si relazionano a Nico , a parte Richard, il manager gentiluomo che è stato l’ultimo angelo custode e improbabile innamorato naif impigliato nei meandri delle contraddizioni della sua Signora , sono piuttosto tirate via e non particolarmente incisive, su tutte la figura chiave del figlio Ari, concepito dalla sua relazione con Alain Delon ( qui mai citato ) che sembra essere, magari intenzionalmente, una figura del suo immaginario fantasmatico, una proiezione , un doppio della sua anima tormentata più che un essere umano altro da sé con cui poter stabilire la relazione d’amore autentica in grado di salvare entrambi ( Ari ha sofferto di gravi disturbi psichici ed è stato ricoverato per molti anni  in una clinica).

Ma ci sono un’altra immagine e un’altra intuizione che lasciano il segno in questo film imperfetto e anomalo, e sono contenute proprio nell’incipit, quando la Nico bambina, sfollata in campagna con la madre, guarda in lontananza delle luci arancioni : “È Berlino che brucia”, le viene risposto, con un presagio di sconfitta, disfatta, morte .

Un presagio che Nico va poi cercando in tutti i suoni della realtà attraverso il microfono attaccato al suo registratore, il “suono della sconfitta, della resa” che le ricorda la sua infanzia di sofferenza e privazione, in un’altra bella e ricorrente immagine di wendersiana memoria ( Rudiger Vogler in Lisbon  Story).

Lo stesso suono che ha  provato a riprodurre nella sua voce e nella sua musica, celebrando la vita nella sua parte oscura e desolata:“Sono stata sia in cima che in fondo.Ed entrambi i luoghi sono vuoti”.

 

 

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