Espía a una mujer que se mata e Zio Vanja; Los hijos se han dormido e Il gabbiano. Dietro i titoli misteriosi dei due spettacoli portati al Napoli Teatro Festival dal regista argentino Daniel Veronese si nascondono titoli ben più noti alla storia del teatro, entrambi riconducibili al genio di Anton Pavlovič Čechov. Espía a una mujer e Los hijos, insieme a Un hombre que se ahoga (tratto da Tre sorelle), compongono infatti il trittico che il regista di Buenos Aires, uno dei protagonisti del focus sulla nuova scena argentina proposto quest’anno dal festival, ha dedicato, a partire dal 2004, al grande drammaturgo russo. E la ri-titolazione, c’è subito da dire, non è un dato accessorio. Serve a Veronese per appropriarsi anche simbolicamente, sin dal primo contatto con lo spettatore (il titolo, appunto), di un lavoro che non è semplice traduzione dei drammi di Čechov, ma ri-creazione, ideazione di un mondo poetico originale e autonomo a partire da quei testi.

Sulla scena, i puntelli, ben saldi, sono quelli propri dell’universo cecoviano. L’inadeguatezza alla vita, le velleità artistiche e gli amori inappagati, l’incomunicabilità de Il gabbiano; la rassegnazione al fallimento, la confusione tra vita e arte, le ipocrisie e i legami familiari ossessivi di Zio Vanja. Su tutto, l’immobilismo di una borghesia provinciale decadente e meschina che si rinchiude in se stessa dando vita a microcosmi patogeni, arroccati in ambienti angusti e soffocanti.

Proprio da qui parte Veronese, potenziando questa precisa idea dello spazio quale «spazio dell’implosione» con una conseguente resa del tempo, come «tempo della stagnazione». I due spettacoli sono dei flussi continui. Il pubblico si accomoda in platea e gli attori sono già lì, hanno già cominciato. Poi niente stacchi, sipari, cambi di scena o d’abito: il passare del tempo è segnalato dalla chiusura o apertura di una porta, dalla battuta di un personaggio che improvvisamente fa riferimento a «un anno fa». Il tempo, dunque, di fatto non scorre. Ogni soluzione di continuità a questa dimensione temporale in cui tutto è presente è negata, e con essa qualsiasi ipotesi di fuori.

Tuttavia il ritmo è indiavolato. I magnifici attori della banda di Veronese – dieci in Los hijos se han dormido, sette in Espía a una mujer que se mata, spesso tutti contemporaneamente in scena – si muovono frenetici e riempiono la scena di un dinamismo convulso puntualmente votato al fallimento. Bevono, giocano, urlano, disperano e si lanciano in serrate dispute dialettiche sulle loro esistenze, sul senso della vita e del teatro, su Dio. Citano Shakespeare e Jean Genet in allegre derive anacronistiche interamente frutto della riscrittura di Veronese. Non si preoccupano di darci le spalle, se capita, perché in fondo sappiamo che siamo a teatro.

Rispetto ai testi di partenza, il regista sembra costantemente impegnato a ridurre la distanza tra il palcoscenico e la platea, ad avvicinare la storia al presente. Ecco allora che la sottile ironia originaria della prosa cecoviana, volta a mantenere la giusta distanza critica dalle vicende narrate, si apre qui in inattesi, per quanto misurati, slanci umoristici. I personaggi di contorno vengono portati in primo piano, rendendo Los hijos se han dormido e Espía a una mujer que se mata due veri e propri drammi corali, a cui non sono estranee, viste le sottotrame di amori respinti, tradimenti e segreti, suggestioni da feuilleton.

Ma è sempre, comunque, un’esigenza di verità che muove le scelte di Veronese, per quanto all’interno di una impalcatura dichiaratamente finzionale. Per usare le sue parole, è necessario che il pubblico sia «nella condizione di guardare come se si stesse affacciando da una finestra». Da qui il rifiuto di abiti d’epoca e la scelta di scenografie poverissime, essenziali, che respingono a priori l’utilizzo di artifici e convenzionalismi tradizionalmente teatrali, per concentrarsi sull’idea visiva di un’umanità per la quale l’esistenza si svolge per intero nello spazio di una sala da pranzo.

Colpisce dunque come Veronese, nel suo rapportarsi a Čechov, sia riuscito a trovare quella cifra miracolosa che rappresenta spesso l’obiettivo mancato di tanti scrittori e registi che lavorano sulla trasposizione, a teatro come al cinema: tenere ferma la fedeltà al classico senza però subirlo passivamente, conservarne intatto lo spirito rigettando al contempo il calco filologico. Rivisto da Veronese, Čechov si esalta quale classico del presente. Attuale, eloquente, doloroso. Vivo.

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