Opera prima dell’israeliano Nadav Lapid, Hashoter, presentato a Locarno nella sezione Competizione internazionale, è un film di fantapolitica che fornisce materia di riflessione sulla realtà sociale del paese. Hashoter, che significa poliziotto, è una pellicola dal fascino particolare caratterizzata da una messa in scena brillante, altamente stilizzata, costellata qua e là di punte di sarcasmo, da una sceneggiatura rigorosamente tripartita, da un cast di giovani attori dall’indubbia prestanza fisica e da un soggetto non privo di un fondo di provocazione politica. Certo il tenore della vicenda è, a tratti, ineguale, la costruzione narrativa soffre di un certo squilibrio e di qualche insicurezza in alcuni passaggi chiave, ciononostante Nadav Lapid – che ha sviluppato questo progetto in seno alla Rèsidence del festival di Cannes – dimostra di possedere una scrittura cinematografica forte e molto personale. La trama è in sé semplice: due gruppi armati – un reparto anti-terrorismo della polizia israeliana e un gruppo di giovani rivoluzionari marxisti – si confrontano in un drammatico show down finale. L’interesse della pellicola risiede nel modo in cui il regista mette in scena questi due universi dedicando la prima parte del film esclusivamente al primo gruppo, per passare poi, senza mediazione alcuna, alla descrizione del secondo. La terza parte della pellicola racconta l’inevitabile scontro di queste due entità.

 

Il primo capitolo del film, quello più lungo e più elaborato, ruota intorno ad un personaggio principale, Yaron, membro di una squadra speciale del reparto anti-terrorismo. Iniziamo a seguire la sua vita quotidiana in media res. Per Yaron l’amore per la famiglia va di pari passo con la dedizione al suo gruppo d’elite con cui condivide, oltre al lavoro, anche il suo tempo libero. Un misto di virilità esasperata e di premura, piena di affetto per la moglie incinta e la madre, costituisce il tratto saliente del suo carattere (lo vediamo lanciarsi nel salotto di casa in una danza erotico-machista e, subito dopo, massaggiare amorevolmente il ventre della moglie). Il suo narcisismo senza limiti lo porta a pavoneggiarsi a torso nudo davanti ad uno specchio, tenendo in braccio un bèbè di amici, per vedere l’effetto che farà quando terrà in braccio la sua futura figlia.) I membri della squadra di Yaron, sospesi per qualche giorno a causa di un’inchiesta giudiziaria in corso, ne approfittano per fare tutti insieme dello sport, andare in spiaggia, organizzare un barbecue nel giardino di uno di loro. Il modo in cui il machismo del gruppo viene descritto sfiora i limiti della caricatura: vero concentrato di adrenalina e testosterone, questi uomini non riescono a stare fermi un attimo. Il culto del corpo e l’ossessione del fitness vanno di pari passo con un rituale di saluto fatto di abbracci e di pacche sulle spalle che, amplificate dal sound design, risuonano cavernose e irreali. Dietro a questo spirito di cameratismo, a prima vista candido, si cela in realtà un opportunismo crudele. Il motto: Uno per tutti, tutti per uno! diventa una comoda scappatoia per la squadra accusata del massacro di una famiglia di palestinesi. La responsabilità viene semplicemente scaricata sul membro più debole del gruppo; un collega malato di cancro al quale non resta molto tempo da vivere. Costui, senza neanche rendersi conto dell’enormità di quanto gli viene proposto-imposto, accetta di buon grado di assumersi tutta la colpa, pur di salvare la sua unità. In seguito i nostri eroi si ritrovano tutti quanti intorno alla tomba di un collega morto un anno prima; sotto un sole battente intonano, insieme alla giovane vedova, un inno in suo onore.

 

Senza alcuna transizione assistiamo a una scena di vandalismo notturno: un gruppo di skinheads distrugge completamente una macchina parcheggiata. Da lontano una ragazza osserva, indifesa, l’accaduto. Dopo un nuovo taglio netto nel montaggio vediamo la stessa ragazza mentre si esercita a sparare nel deserto; Shira ha deciso di reagire all’ingiustizia con la lotta armata. Alla forza bruta e al nazionalismo del gruppo di Yaron, si contrappone la determinazione fredda, l’idealismo, l’arroganza e l’inesperienza del gruppo rivoluzionario. I suoi giovani membri provengono da famiglie dall’intellighenzia borghese, sono degli israeliani ‘purosangue’ che si propongono di combattere contro la discriminazione sociale nel paese. La dinamica di gruppo della cellula sovversiva porta in sé, fin dal principio, un potenziale di disgregazione; più che per lo spirito comunitario i suoi quattro membri si definiscono per il loro individualismo. Delle complesse relazioni sentimentali ne determinano il funzionamento: leader carismatico del gruppo è Natanael, figlio di un magistrato, Shira, la poetessa, è segretamente innamorata di lui, Aron, un ragazzo timido e riservato è a sua volta infatuato di lei, infine Isaac, un violinista virtuoso, è l’unico ad avere un vero e proprio addestramento militare. I quattro si propongono di prendere in ostaggio un magnate dell’industria israeliana durante il matrimonio di sua figlia per convocare i media e diffondere il loro manifesto politico.  Durante i preparativi del sequestro le cose si complicano; il padre di Aron, un rivoluzionario di vecchia data, si rende conto di quanto suo figlio sta tramando e, dopo avere tentato invano di dissuaderlo, decide di partecipare lui stesso all’azione. Poi il grande giorno arriva. La vicenda si conclude con un inevitabile bagno di sangue. L’ultima immagine ci mostra lo sguardo sconvolto di Yaron, abituato a combattere contro il nemico ‘esterno’ e non contro i suoi compatrioti, mentre fissa inebetito il volto di Shira moribonda. Il finale resta, in un certo senso, aperto; non sapremo mai cosa pensi l’uomo, ma tutto lascia supporre che l’accaduto lo porti a riflettere, in futuro, sulla complessità della situazione interna del suo Paese.

 

Con un tempismo sorprendente il giorno della proiezione del film è coinciso con il culmine delle manifestazioni in Israele; proprio il 7 di agosto 300.000 persone, perlopiù provenienti dalle classi medie, sono scese in piazza – cosa fino a poco tempo fa semplicemente impensabile – per protestare contro l’ingiustizia sociale nel paese. Vista alla luce di questi eventi, la storia di fantapolitica immaginata da Lapid, assume un carattere quasi profetico. Durante il dibattito con il pubblico il regista ha spiegato che l’idea del film gli è venuta qualche tempo fa durante un suo viaggio a Berlino nel corso del quale aveva visto una mostra sul gruppo Baader-Meinhof:  “In quell’occasione mi sono chiesto come sia possibile che nel mio Paese, dove c’è un divario economico così terrificante fra ricchi e poveri, non ci sia un movimento di opposizione sociale, un conflitto interno, un’opposizione al sistema. La risposta è ovvia: la violenza, l’aggressività e il malcontento sono costantemente canalizzati verso l’esterno, verso il conflitto con i palestinesi. Per queste ragioni Hashoter non era per me solo un gesto puramente estetico, ma anche una dichiarazione politico-propositiva. Certo il film fornisce una visione pessimista e determinista di questo conflitto ma io mi auguro vivamente che in futuro il suo esito possa essere ben diver
so.”

La cronaca della realtà ci dirà il seguito…

 

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