Rinunciare ai propri sogni può essere molto difficile.Nonostante il tempo che passa, le responsabilità che aumentano, la crisi economica che incalza non c’è niente da fare il 46enne Antonio Colucci non si arrende. In fondo è anche un privilegiato se ancora può permettersi di rincorrere delle aspirazioni. Sogna il cinema. Vuole essere un regista anche se è rimasto relegato nel suo paesino lucano a girare filmini di matrimoni e spot pubblicitari per supermercati.

“In vent’anni tutto è cambiato, tranne te” è la frase pronunciata dalla sua ex moglie che sintetizza meglio questo stato catatonico di perenne aspirante regista. L’unico film che ha realizzato in gioventù è finito nel mercato dell’home video tedesco e adesso Antonio vorrebbe riprovarci con un nuovo progetto dal titolo trash: L’uomo che uccise la Terra, un horror apocalittico  che ha come unica location un cimitero e come protagonista il suo custode non appassiona proprio nessuno.

Tutti nel paese lo demotivano quando prova a cercare fondi in giro per banche, amici, imprenditori agricoli e politici.“La società perdona spesso il criminale; ma non perdona mai il sognatore” (Oscar Wilde, Il critico come artista, 1889)

Una tragicomica odissea in cui l’errare di Antonio, per realizzare il suo sogno, si incastra con storie reali di ordinaria follia: esasperati conflitti sentimentali tra la sua compagna paranoica e l’ex moglie mitizzata, un amico psicopatico, festini kitsch, paradossali committenti, improbabili pseudo-registi raccomandati. E poi incubi notturni con parenti deceduti che ritornano ad ammonirlo, processioni di compaesani che lasciano soldi in cambio di una quota del film, ipotetiche scene del suo horror che si sovrappongono a persone e problematiche della sua vita reale.

Alla fine di questa fiera umana di cinismo, falsità, invidie, vacua ricchezza, incomprensioni e soprattutto desolazione culturale Antonio Colucci, seppur inguaribile idealista, apparirà l’anima meno guasta di tutte. I veri esseri mostruosi si trovano nel mondo reale, non nei film horror.

Dopo circa un anno di festival e uscite non ufficiali, Una domenica notte  ha ottenuto una distribuzione ufficiale grazie a Distribuzione Indipendente che punta sul cinema d’autore e di genere. Un film che scorre piacevolmente con un bel ritmo che alterna realtà, frammenti onirici e spassosi inserti b/n di autentici provini fatti ad aspiranti comparse di  Bernalda (MT), che nel curriculum vantano partecipazioni a The Passion of the Christ e Nativity.

Girato interamente tra vari paesini della Basilicata, Una domenica notte è  una commedia che amalgama molto bene una precisa ricercatezza visiva con un grottesco naif locale estrapolato dalla vita di provincia. Nonostante la sua giovane età il regista Giuseppe Marco Albano (classe 1985) dimostra di avere ben chiare le basi di una riconoscibilità stilistica che già  si era imposta nel cortometraggio Stand by me, vincitore del Nastro d’Argento nel 2012. Indimenticabile lo slogan  del Cavalier Pacucci, genio dell’imprenditoria funebre: “Venite a morire a Matera!”.

L’altro importante apporto viene dato da Antonio Andrisani che conferma ancora una volta il felice sodalizio artistico con Albano. Andrisani oltre ad essere l’ottimo attore protagonista firma anche una sceneggiatura di tutto rispetto dal mordace umorismo, ricca di spunti riflessivi e priva dei soliti luoghi comuni triti e ritriti.

Per questo Una domenica notte mette in luce tutte le magagne, la banalità e la leziosità della maggior parte delle cosiddette commedie italiane che troviamo attualmente in sala. Prevedibili, laccate, scritte e girate male. “Insincere”, come dice Antonio Andrisani. La rivalsa della vera commedia sta arrivando dal cinema indipendente che dimostra quanto possa essere vivo, originale e pieno di possibilità questo genere sfruttato e depotenziato, molto spesso, solo per fare cassa.

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