Il cinema americano, specialmente quello figlio della miglior tradizione liberal ed espressione di una coscienza civile maturata nel grigio disincanto degli anni settanta, ha sempre cocciutamente cercato di interrogarsi e di comprendere anche gli aspetti più contraddittori e scomodi della sua storia recente, con un giusto tono di struggimento e dolore per la consapevolezza che la materia di cui ci si va ad occupare può rivelare il lato oscuro e spaventoso di un sistema che apparentemente si credeva intoccabile, puro, cristallino.
L’interesse che suscitano due film molto differenti per stile, tono e concezione drammaturgica come The Good Sheperd – L’ombra del potere e Breach – l’infiltrato risiede nella natura melodrammatica comune che entrambi possiedono, seppur camuffati da riflessioni più o meno sconsolate sui massimi sistemi di controllo e sicurezza statunitensi (la CIA, l’FBI). Si tratta in realtà di due melodrammi familiari incentrati sul conflitto cardine tra padre e figlio, prendendo questi due termini nell’accezione più vasta possibile. Edward Wilson, il “buon pastore” della seconda regia di Robert De Niro – che aveva raccontato più o meno la stessa storia nel suo film d’esordio Bronx calandola però nell’ambiente del piccolo gangsterismo di Little Italy – è l’immagine del figlio bello, colto, educato e sano dell’America Wasp a cavallo tra gli anni quaranta e gli anni sessanta. Un periodo storico dove le ideologie schematicamente definite – Liberalismo e Comunismo sovietico – incidevano sulla formazione di una persona più dei legami familiari o, meglio, l’idea di famiglia coincideva indissolubilmente con quella di Patria: per difenderne gli interessi e i valori era lecito qualsiasi mezzo. De Niro cerca sicuramente di mantenere una distanza nel raccontare questo personaggio così emblematico di un’epoca e di un clima, e molto gli giova l’interpretazione di un Matt Damon la cui vorace innocenza e passionalità si contrappone con risonanza alla subdola ambiguità del poliziotto corrotto di The Departed. Anche quando Edward inizia la sua scalata all’interno dell’OSS, l’organizzazione da cui poi si strutturerà la CIA, quello a cui assistiamo è la frattura tra un’immagine di perfezione e correttezza e il degrado di quest’immagine verso un buco nero di menzogne, silenzi, di asettici e rituali interrogatori per carpire informazioni dai prigionieri politici dell’altra parte. Anche se non dichiarata, De Niro mantiene viva una sorta di integrità da parte del suo eroe antagonista (identificabile tanto come il “buono” quanto come il “cattivo”), di fedeltà all’ideologia, alla missione che gli è stata affidata dal Paese-Padre, tanto per declinarlo al maschile.

A questo punto comincia la tragedia visto che Edward deve alimentare un’immagine di perfezione agli occhi della società “trasparente”: questo lo porta a seguire l’iter convenzionale del matrimonio e della famiglia con tanto di figlio che replicherà, in una sorta di pre-destinazione o più semplicemente di ineluttabilità, il destino del padre. L’impossibilità di stabilire un qualsiasi altro legame di fiducia e di amore assoluto se non quello con il proprio Paese, porta il racconto in quella zona grigia e avvilita di interni familiari freddi, di incomunicabilità, di negazione del contatto. E qui l’occhio di De Niro si alza dall’onesta professionismo fino a dare forza visiva ad uno degli snodi centrali della sceneggiatura: il rapporto fasullo e difettoso tra Edward e la moglie Margaret, ben resa dalla statuaria e iconografica fisicità di Angelina Jolie. Riusciamo a stento a credere che riescano a dividere lo stesso spazio di intimità e De Niro tende a riprenderli, con il progredire o meglio l’involvere del loro rapporto, come figure isolate, incastonate nelle minuziose e accurate scenografie, sempre più chiuse nei loro ruoli. Lei la moglie di facciata, lui l’integro patriota pronto a sacrificare persino la propria umanità. La tragedia nasce dal trovarsi in una soluzione senza uscita, dal non poter fare a meno di seguire una direzione che porta alla totale disfatta di quella che si credeva la propria identità per plasmarsi su un’identità prodotta dal sistema.

È lo stesso dilemma in cui si contorce Eric O’Neil, novellino agente dell’FBI in Breach-l’infiltrato, che viene messo al corrente del fatto che colui il quale dovrebbe essere il suo formatore, il suo padre putativo, la sua guida all’interno della più potente organizzazione di polizia degli Stati Uniti, è forse una spia del solito nemico sovietico. Eric è, come Edward, un innocente la cui posizione assolutamente insospettabile, neutra, pura può essere strumentalizzata, concupita, e direzionata allo svelamento della vera identità di Robert Hansenn, personaggio tra l’altro realmente esistito (come d’altronde lo stesso O’Neil, che contribuì a catturarlo rivelando il più famoso caso di spionaggio all’interno dell’FBI).

Ciò che muta radicalmente è l’idea che quello che si crede il padre possa tradire, ingannare, fare il doppio gioco, diventando da mèntore la nemesi e mettendo il figlio nelle condizioni di rivedere la sua stessa dimensione, facendosi orfano e rifacendosi adottare ancora una volta dal sistema che qui si chiama FBI (anche se poi il vero O’Neil, chiuso il caso Hansenn, ha preferito abbandonare e dedicarsi alla carriera d’avvocato). Certo il film diretto da Billy Ray rifiuta più apertamente il respiro della tragedia esistenziale per concentrarsi sulla claustrofobica caccia all’uomo, sulla struttura compatta dello spy movie più che sulle sfumature psicologiche o sui risvolti metaforici della vicenda, sintonizzandosi sulla stessa neutralità del personaggio di Eric: l’unico suo sentimento che riesce ad imporsi, nella pur fitta rete di intrighi e rovesciamenti di prospettive, è lo spaesamento, un momento di sospensione tra ciò in cui aveva creduto e ciò a cui gli viene chiesto di credere, una passività che riporta al concetto di manipolazione. La regia di Ray non comporta alcun rovesciamento di prospettiva ed è insolito che una storia che trasuda tanta ambiguità vada a sbattere contro una scrittura registica tanto semplice, lineare, che contraddice ogni messaggio indefinibile e lo rende accessibile , ovvio, dichiarato. Hansenn era un traditore e O’Neil alla fine ha fatto il suo dovere, esattamente come Edward Wilson aveva sempre scelto la fedeltà all’Ideale piuttosto che la ricerca di tenerezza e di calore umano. Se si volesse chiudere il cerchio cercando un archetipo nella drammaturgia e nel cinema americani, il germe di questi due personaggi potrebbe essere il soldato Billy di  Streamers, un testo di David Rabe ambientato in una caserma militare in Vietnam, magistralmente portato sullo schermo da Bob Altman. Quel ragazzo era   figlio della stessa America di Edward ed Eric: è uno per cui Hitler è uguale a Stalin, è contro il razzismo ma al tempo stesso è prudente verso gli sconosciuti, è portatore di sani valori di razionalità e buon senso, e crede nella libertà come un valore da imporre piuttosto che come uno stato dell’essere: su questi principi l’America ha tramat
o la sua anima nera.

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