The Wrestler è un film la cui forza narrativa è più all’esterno che all’interno. In cui la spinta drammaturgica e i colpi di scena che riguardano il film oscurano quelli, molto più intimisti, della storia vera e propria.

A partire da Nicolas Cage nel ruolo di protagonista, che si fa da parte quando il regista Aronofsky si innamora di Mickey Rourke, per arrivare al problematico percorso del regista stesso, ex-enfant prodige del cinema indie (Pi Il teorema del delirio e Requiem for a Dream) che inciampa clamorosamente di fronte alla sorgente della vita (l’incompreso The Fountain).

Come in ogni sceneggiatura che si rispetti, il fascino sta nei dettagli: le turbolente scelte di casting che ritornano (le sventure di The Fountain iniziarono quando Brad Pitt, protagonista annunciato con Cate Blanchett, mollò il progetto), una certa unità di luogo, da Venezia a Venezia, dai fischi a The Fountain a un The Wrestler presentato fresco di completamento e con un profilo molto basso, per finire invece con un Leone d’Oro a sorpresa.

Il piatto forte rimane però la parabola di Mickey Rourke, su cui molte parole sono state spese. All’inferno e ritorno, rientrare nel giro attraverso ruoli periferici fatti di pura carne dura, volgere in forma attoriale la deriva fisica, fino a che uno di quei ruoli diventa il protagonista, e parla di tutti gli altri. E parla anche di Rourke, di quella voglia di prendere colpi, tra machismo scaduto e autolesionismo.

The Wrestler è una storia di cocci da raccogliere, i cocci di Randy “The Ram” Robinson, ex-leggenda del wrestling ai tempi del boom anni Ottanta. Oggi Randy sbarca il lunario con difficoltà, è il simulacro di una moda passata. Aronofsky ne racconta la cocciuta insistenza a non arrendersi, tra qualche revival e una convention. I poli affettivi del protagonista sono solo tre: una spogliarellista che meglio di lui ha capito l’etica comune al lavoro di entrambi, una figlia da imparare a conoscere, e il rapporto con i colleghi di un tempo, che gli anni (e le botte) hanno asciugato da un cameratismo spaccone a una rispettosa empatia.

Molto lineare nella struttura, il film vive, oltre che della mostruosa interpretazione del protagonista, di una sceneggiatura efficace nel descrivere i piccoli paradossi del suo personaggio. Come i rituali di preparazione, stranianti per quanto sono artificiali eppure così banali (tingersi i capelli, depilarsi, alzare pesi). Oppure delle suddette meccaniche “lavorative” con i colleghi, commoventi quanto il ragazzino che preferisce giocare all’ultimissimo Call of Duty 4 invece che perdere tempo con l’obsoleto Nintendo su cui Randy rivive il suo storico match contro il rivale Ayatollah.

Ci sono poi le singole sequenze in cui il talento di regista e interprete fiorisce naturalmente, all’apparenza senza sforzi: Randy mattatore al supermercato dove cerca di rifarsi una vita al banco gastronomia, un match sfasato da Aronofsky per decostruire la logica della coreografia.

Si tratta del resto di un punto di svolta per entrambi. Rourke improvvisa giocando sempre in casa, ma questa volta ha lui le chiavi. Aronofsky, scottato dal film precedente, abbandona i virtuosismi e arriva sul set libero da ogni pressione stilistica. Il risultato è un uso corposo del piano sequenza e una messa in scena ruvida ma genuina. Spesso Randy è ripreso di spalle, “accompagnato” pudicamente, esplorato in modo obliquo. Quel volto sofferente, soprattutto all’inizio, è un tesoro da preservare, e il regista lo sa.

Arrivati a questo punto la storia ondeggia placidamente verso la sua conclusione, ma non importa neanche più. The Ram abbiamo imparato a conoscerlo, ci basta quello. A posteriori, quel pezzo di strada che ha fatto da solo è ancora più significativo. Da una Venezia che gli negò il premio individuale per logiche di giuria, Rourke è arrivato – tornato – al cuore dell’establishment, la notte degli Oscar. Il culmine della rincorsa. E ha perso di nuovo. Chissà la faccia di Randy.

Nota: per i casi della distribuzione italiana, The Wrestler esce nello stesso weekend di Watchmen, attesa trasposizione di un capolavoro della narrativa recente (l’omonima graphic novel di Alan Moore, 1986). I due titoli formano una coppia cinematografica pregna di spunti e territori comuni, capace di offrire una curiosa sovrapposizione all’occhio dello spettatore. Nel corto circuito tra l’estremamente futile (il piacere ultimo della lotta coreografata a cui si immola Rourke) e il totalmente necessario (il rapporto con la fine del mondo degli eroi mascherati in Watchmen), vengono sublimate le stesse tematiche: vivere il peso di un’identità pubblica, offrirsi come forma di spettacolo umano, e soprattutto affrontare le conseguenze di quando tutto questo finisce. Come si fa a fare i conti con se stessi quando per tanto tempo si è stati altro, persona mitologica di un’era che volge al termine? Il wrestler di Rourke, oltre a prendere gli stessi cazzotti appesantiti e rabbiosi, incarna tratti degli eroi di Moore (quelli umani troppo umani), ne è quasi una sintesi; è un po’ Comedian e un po’ Rorschach, e ogni tanto abbassa la testa nello sconforto come il Gufo Notturno. Solo.

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